giovedì 31 gennaio 2013

SORPRESA! AGLI ITALIANI PIACCIONO I SOTTOTITOLI...

Jamie Foxx e Leonardo DiCaprio in 'Django Unchained'

Questa proprio non ce l'aspettavamo! Agli italiani piacciono i film in lingua originale: è quello che risulta dall'inchiesta fatta dal quotidiano La Repubblica, dalla quale si evince che nel nostro paese sta crescendo nettamente il numero di spettatori che preferiscono vedere i film in versione originale sottotitolata. Insomma, per una nazione che si vanta di avere 'i migliori doppiatori del mondo', questa è davvero una rivoluzione culturale!

Certo bisogna andarci cauti: stiamo parlando di un campione ancora poco significativo (appena 47 sale in tutta Italia), ma certo di per sè è un dato a sensazione: gli incassi di due film come Django Unchained e Lincoln proiettati con i soli sottotitoli sono percentualmente superiori a quelli distribuiti nella normale versione doppiata. Ed è indubbiamente una bella notizia: non vogliamo fare gli snob o i cinefili 'integralisti' duri e puri, ma crediamo che vedere un film nella lingua in cui è stato pensato e concepito sia, prima di ogni altra cosa, una forma di rispetto verso il regista, la produzione e, soprattutto, verso lo spettatore.

Daniel Day-Lewis in 'Lincoln'
Sia chiaro, nessuno vuole colpevolizzare la categoria dei doppiatori o mettere al bando dalla sera alla mattina  un modo di fruire il cinema che, in Italia, è vecchio quanto il cinema stesso. Ci sembrerebbe giusto però che si cominciasse almeno a riflettere e prendere atto della situazione. Ovvero, che sia data allo spettatore la possibilità di scegliere, senza traumi per nessuno: si potrebbe, ad esempio, destinare almeno un giorno alla settimana alla programmazione di film in lingua... e in ogni caso, come si suol dire, sarà sempre il mercato poi a dire la sua.

Geoffrey Rush ne 'La migliore offerta'
Lo ripetiamo, a scanso di equivoci: NON è una crociata contro il doppiaggio, e siamo perfettamente consapevoli che nel nostro paese esistono intere categorie di persone (in primo luogo gli anziani) che hanno difficoltà a leggere i sottotitoli o che non conoscono bene le lingue, così come sappiamo bene che eliminare il doppiaggio creerebbe tensioni occupazionali in un momento storico non certo felice. Però è altrettanto vero che oggi lo studio delle lingue straniere è molto più diffuso, che il livello di istruzione (almeno tra i giovani) è molto più alto di una volta, che la globalizzazione ci porta ad avere scambi culturali con l'estero in numero enormemente superiore rispetto anche solo a pochi anni fa. E crediamo pertanto che sia giusto cominciare a far capire alla gente che vedere un film in lingua originale non è un tabù nè un'impresa disperata: ci possiamo riuscire anche noi, così come avviene in tutta Europa.

D'altronde, chi di voi ha visto Lincoln non potrà non convenire che sentire parlare Daniel Day-Lewis con l'accento pittoresco di Pierfrencesco Favino è quantomeno surreale... un ottimo spunto di riflessione!

lunedì 28 gennaio 2013

LINCOLN

(id.)
di Steven Spielberg (USA, 2012)
con Daniel Day-Lewis, Sally Field, Tommy Lee Jones, James Spader, Joseph Gordon-Levitt, David Strathairn, Hal Holbrook
VOTO: **/5


Curiose coincidenze storico-cinefile: a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro escono nelle nostre sale due film americani che trattano, a modo loro, di una delle pagine più nere e misconosciute della storia a stelle e strisce. E se Django Unchained, che è ambientato nel 1858 (vale a dire tre anni prima della Guerra di Secessione) è fondamentalmente un pamphlet contro gli orrori della schiavitù e l'ottusità dei bianchi, Lincoln si preoccupa invece di raccontarci come essa fu (faticosamente) abolita per mano del più famoso Presidente che gli Stati Uniti ricordino, tanto da pagare con la vita la sua battaglia per l'uguaglianza. A dire il vero ci sarebbe anche un terzo film, The Conspirator, girato un paio d'anni fa da Robert Redford (molto bello, tra l'altro) e finito presto nel dimenticatoio, che si occupava invece di ciò che accadde dopo l'assassinio di Lincoln...

Ma restiamo in tema, e cioè a Lincoln: ovvero, il filmone dalle dodici candidature agli Oscar (favorito numero uno), che il democraticissimo Steven Spielberg aveva in mente da tempo e che sbarca adesso sui nostri schermi. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, Lincoln non è un biopic in senso stretto, nel senso che racconta solo gli ultimi quattro mesi di vita del personaggio impersonato da Daniel Day-Lewis (come ve lo diremo dopo), vale a dire dal momento della sua rielezione fino alla dura battaglia per l'approvazione del tredicesimo emendamento, cioè la legge che avrebbe definitivamente abolito la schiavitù in tutto il paese.

Non era  una questione di poco conto: all'epoca gli schiavi neri garantivano manodopera gratis e inusitato benessere per i loro padroni, spesso ricchissimi proprietari terrieri che vedevano come il fumo negli occhi la possibilità di essere privati del loro maggior privilegio. Fu per questo che undici stati 'dissidenti' del Sud si confederarono tra loro e combatterono una sanguinosa guerra civile contro il potere centrale di Washington. Lincoln parte proprio da qui, ovvero dalla corsa contro il tempo che il Presidente ingaggiò per far passare la legge prima della fine della guerra: se il Sud sconfitto, infatti, si fosse riunificato con l'Unione, il Congresso non avrebbe mai avuto i voti necessari per farla approvare. Ma anche senza la 'zavorra' sudista, il cammino della legge non fu affatto facile: la Costituzione americana prevedeva (e prevede tuttora) la maggioranza dei 2/3 dei parlamentari per le modifiche più salienti, e questo significava una sola cosa: che il partito del Presidente avrebbe per forza di cose dovuto convincere (con qualsiasi mezzo) una ventina di deputati dell'opposizione a votare il suo progetto.

Questo è il vero tema centrale di Lincoln: non tanto la battaglia contro la schiavitù quanto l'eterno machiavelliano conflitto tra etica e politica. Se sia cioè giusto, per un nobile fine, affidarsi a qualsiasi mezzo per ottenerlo, anche i meno orotodossi, se non palesemente illegali e scorretti. Lincoln è quindi la cronaca di una cinica compravendita di voti tra schieramenti contrapposti, in cambo di favori e reciproci compromessi. La morale è evidente: la politica è sporca a prescindere, anche quando si tratta di dover decidere su argomenti universali e apparentemente indiscutibili come la schiavitù. Con ovvi riferimenti al presente.

 Ma se l'intento del regista è altrettanto nobile, in questo film la disparità tra intenzioni e risultato è stridente: Spielberg è un regista che ha dato il meglio di sè in passato, con film spettacolari, avventurosi e pieni di ritmo, capaci di toccare le corde degli spettatori schiudendo il lato fanciullesco che è in ognuno di noi. Poi però i soldi guadagnati, la fama, e anche (inutile negarlo) un calo di ispirazione, lo hanno portato a dirigere negli ultimi anni film melensi, vuoti, totalmente sbilanciati verso l'ovvietà e l'edulcorazione e in cui è difficile respingere, a seconda dei casi, la melassa o la noia.

Ecco, Lincoln appartiene decisamente alla seconda categoria: è una pellicola noiosa, sfiancante, senza ritmo, interminabile e troppo verbosa. Spielberg cerca volutamente di mantenere i toni bassi e rispettosi verso una tragedia doppia (quella di un uomo e di un popolo intero), ma lo fa appesantendo il film con troppa retorica e poche scene madri, e come al solito eccedendo in didascalismo: Spielberg deve sempre spiegarci tutto, anche ciò che è palese e non necessiterebbe di inutili lunghe digressioni verbali... finisce che così il film dura una buona mezz'ora più del dovuto, imbevuta dalle solite ridondanti musiche di John Williams e dalla leziosità della sceneggiatura che finisce per vanificare anche le prestazioni degli interpreti.

Succede così che un signor attore come Daniel Day-Lewis, generalmente superlativo, qui sparisce sotto chili di trucco e dialoghi pomposi e sempre sopra le righe. Magari vincerà pure l'Oscar (gli americani sono sempre generosi con i loro eroi) ma la sua recitazione enfatica e monocorde (usa sempre lo stesso tono, sia in pubblico sia in privato con moglie e figli) stavolta non sarà ricordata negli annali (anche se, dobbiamo dire, da noi il surreale doppiaggio di Pierfrancesco Favino certo non lo aiuta).  Meglio, molto meglio, il vecchio Tommy Lee Jones, che porta il parrucchino in aula e la governante nera a letto, decisamente più a suo agio come politico fervente e incorruttibile...

Ma se davvero volete vedere un bel film sugli intrighi e i compromessi della politica, molto più snello e attuale di Lincoln, il mio consiglio è di rivedervi il bravo George Clooney e le sue Idi di Marzo, passato a Venezia un paio di stagioni fa: una pellicola nient'affatto pretenziosa e commercialmente perfetta, coi tempi giusti del film di genere. Qualità che Lincoln proprio non possiede.   

venerdì 25 gennaio 2013

FRANKENWEENIE

(id.)
di Tim Burton (USA, 2012)
VOTO: ****/5

A uno come Zdenek Zeman (scimmiottando un buffo spot pubblicitario che vediamo in questi giorni) basterebbero tre parole per recensire Frankenweenie, ovvero: solo per appassionati. Una frasetta che è il più delle volte critica e un pochino polemica, ma che invece stavolta calza a pennello per l'ultimo lungometraggio di Tim Burton. E' semplice: Frankenweenie è in pratica la summa di tutto il suo cinema, quasi un testamento artistico per il maestro di Burbank, e che ci riporta alla domanda con la quale ci eravamo lasciati recensendo Dark Shadows.

Vi ricordate? All'epoca scrivemmo che Burton era ormai arrivato a un bivio nella sua carriera (vedi qui): decidere, cioè, se diventare 'grande' e cercare di rinnovarsi, evolvendo la sua idea di cinema a standard più consoni al suo estro, oppure adagiarsi su se stesso continuando a ripetere all'infinito gli stessi film, cambiando personaggi e ambientazioni ma propinandoci sempre la stessa minestrina...

Frankenweenie, diciamolo subito, non aiuta a fugare i dubbi. Apparentemente si potrebbe dire che Burton abbia scelto la seconda strada, la più facile, in quanto è andato a ripescare addirittura un suo cortometraggio di quasi trent'anni fa, che all'epoca fece imbestialire la Disney fino a farlo licenziare e che oggi invece, grazie alle glorie passate (e ai dollari accumulati), il prode Tim può permettersi di ampliare e far diventare un film vero e proprio, che riassume tutti i canoni del suo pensiero: l'elogio dei 'diversi', degli emarginati, dei timidi, le atmosfere gioiosamente dark (dove solo lui riesce a non entrare in contraddizione), l'idea di un aldilà che è un mondo più giusto e più  sereno di quello dei vivi.

Insomma, lo spettatore che va a vedere Frankenweenie troverà esattamente quello che cerca e quello che già conosce di Tim Burton, niente di più niente di meno. E anche se, nel caso specifico, questa non è affatto una tragedia (anzi!) il sospetto che questo sia un film di 'transizione' di un regista che sta ancora sfogliando la margherita, inevitabilmente viene...

Dall'altra parte però c'è un lungometraggio che, è bene dirlo a chiare lettere, è un'autentica delizia per gli occhi e una grande lezione di cinema e di vita per grandi e piccini: in Frankenweenie Burton, seppur citandosi addosso, ritrova lo smalto degli anni migliori, deliziando lo spettatore con le allegre trovate di quello spirito libero, visionario e gioiosamente macabro che tanto piace al suo pubblico. Il film è stilisticamente perfetto e artisticamente toccante e divertente, profondo e sbarazzino in egual misura. Girato 'all'antica', cioè con la tecnica dello stop-motion anzichè in digitale come ormai fanno tutti, e in un bianco e nero d'epoca (senza alcun snobismo intellettuale), Frankenweenie ci riporta a un'idea di animazione più 'umana', più artigianale, forse ormai fuori dal tempo, ma innegabilmente più vicina al pubblico (e proprio per questo, a nostro avviso, l'unico appunto che  ci sentiamo di muovere è sull'inutilità del 3D, forse il prezzo da pagare alla produzione).

Come abbiamo già scritto molte altre volte, un grande regista è colui che riesce a rendere bellissime le cose normali: Burton in questo caso ci riesce perfettamente, addirittura riciclando un suo vecchio lavoretto e basandosi su un romanzo immortale e talmente sfruttato cinematograficamente da rischiare la scottatura immediata. E invece Frankenweenie lo vorremmo rivedere subito, oggi stesso, perchè un film così fa bene al cuore e contribuisce a renderci più altruisti e più disponibili nei confronti di chi ci sta vicino. E se nel frattempo, caro Tim, stai cercando di trovare nuove idee e nuove ispirazioni, ci teniamo a dirti che il 'passatempo' che ci hai lasciato per ingannare l'attesa funziona proprio bene!

domenica 20 gennaio 2013

DJANGO UNCHAINED

(id.)
di Quentin Tarantino (USA, 2012)
con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Kerry Washington, Samuel L. Jackson
VOTO: *****/5

Diavolo di Quentin, questa volta ci hai davvero fregati tutti... abbiamo fatto appena in tempo a vedere i titoli di testa del tuo Django, con quelle scritte rosso fuoco e la musica di Luis Bacalov intonata da Rocky Roberts, che già eravamo rassegnati a commentare il tuo 'solito' sgangherato omaggio alle antiche passioni trash italiche, con l'altrettanto consueto campionario di dialoghi verbosissimi, citazioni fino allo sfinimento, personaggi strampalati e, ovviamente, violenza a fiumi.

E invece... beh, i dialoghi verbosissimi ci sono ancora, così come le innumerevoli citazioni e i personaggi assurdi. Per non parlare della violenza in quantità industriale. Ma ecco la prima sorpresa: questa volta con le pallottole ci si fa male davvero: ognuna di esse va a segno e, soprattutto, lascia il segno. Uccide. E a ogni morto ammazzato fanno da contraltare il dolore, la rabbia, la sete di vendetta. Per la prima volta la decantata violenza tarantiniana non è nè innocua, nè volutamente grottesca e sopra le righe come eravamo abituati: è violenza vera, dolorosa, necessaria, e non ci vengono affatto risparmiate le conseguenze e le lacrime che essa genera.

La seconda grande sorpresa è che Django Unchained è un film innegabilmente politico: l'omaggio a Sergio Corbucci e allo spaghetti-western dura una manciata di minuti, giusto il tempo dei panorami iniziali, poi sullo schermo si vedono schiavi ne(g)ri incatenati e malnutriti, alla mercè dei latifondisti bianchi. Poi arriva un cacciatore di taglie tedesco che si finge odontoiatra (Christoph Waltz, che replica il ruolo di Bastardi senza gloria, seppure dalla parte dei 'buoni') , capitato chissà come lì, da qualche parte nel Texas, e decide che è il momento di imbarcarsi in un'avventura folle per i tempi che corrono: aiutare lo schiavo ne(g)ro che ha appena liberato (Jamie Foxx) a ritrovare sua moglie, anch'essa di colore, che di nome fa Brunilda (come nella canzone dei Nibelunghi), parla anche lei il tedesco ed è dispersa in qualche piantagione di cotone dell'immenso Sud...

Questa è la durissima e geniale provocazione che Tarantino rivolge al proprio paese: usare il western, vale a dire il genere cinematografico che più di ogni altro incarna l'essenza e i valori dell'America, come un grimaldello per scardinare il falso mito del Sogno Americano e di un'epopea che chi scrive la Storia, ovvero i vincitori, ci hanno sempre descritto come eroica e ammantata dal Mito, ma che invece si rivela lugubre e macchiata dal sangue di tante vittime innocenti. Un Paese che è nato e cresciuto nel segno della violenza e del razzismo, e che ha sacrificato i più deboli sull'altare della Ragion di Stato. Siamo dalle parti di Gangs of New York e, volendo, di Nascita di una nazione, anche se la memoria corre soprattutto a Gli Spietati di Eastwood, altro grande western demistificatorio e coraggioso, pietra miliare del filone 'revisionista'.

Come nel precedente Bastardi senza gloria, anche in Django Unchained Tarantino vuole riscrivere la Storia a modo suo, ribaltando tutto quello che finora avevamo immaginato sul Mito della Frontiera: qui gli schiavi sono colti, intelligenti e fieri, mentre gli stranieri (nel nostro caso il dentista tedesco Schultz) sono quelli che portano in giro per il mondo gli ideali di giustizia e libertà. Gli americani invece vengono descritti come un popolo razzista, gretto, ignorante, violento, dedito esclusivamente all'accumulo di enormi ricchezze costruite sulle spalle della povera gente. Non c'è infatti nel film un solo personaggio bianco che si salva (in tutti i sensi, sia moralmente che fisicamente), perfino l'anziano maggiordomo di colore dell'aguzzino schiavista, ormai totalmente asservito al padrone, non verrà risparmiato dalla sete di vendetta di Django, esattamente come Hitler, nel film precedente, finiva bruciato vivo dietro le quinte di un cinema.

Django Unchained è il film più bello, importante e riuscito di Quentin Tarantino. Non solo, ci vogliamo sbilanciare: è uno dei più grandi western di sempre, per il messaggio che restituisce e per l'enorme lezione di cinema e di civiltà che trasmette allo spettatore, oltre che uno dei più accorati appelli contro il razzismo e la stupidità umana: e se la scena in cui viene ridicolizzato il Ku-Klux-Klan ci fa sorridere e allentare la tensione, non possiamo invece negare la sinistra inquietudine che ci pervade quando assistiamo alla raccapricciante sequenza del teschio, in cui il ricco e spietato proprietario terriero (Leo Di Caprio, come al solito bravissimo) teorizza la sua delirante giustificazione 'scientifica' della schiavitù, esattamente come il nazismo faceva con gli ebrei. La storia si ripete sempre, ci dice il regista, e pazienza se la ricostruzione non è accurata e filologica come 'si dovrebbe fare': mai come in questo caso il risultato finale è infatti più importante della confezione. Con buona pace di Spike Lee e degli anti-tarantiniani duri e puri, che (stupidamente) non cambiano mai idea.

giovedì 17 gennaio 2013

QUALCOSA NELL'ARIA


(Après Mai)
di Oliver Assayas (Francia, 2012)
con Clement Metayer, Carole Combes, Lola Creton, Dolores Chaplin, India Menuez
VOTO: ****/5

Se esistesse un Leone d'Oro per la scena più bella, siamo certi che questo non sarebbe sfuggito ad Après Mai, l'ultimo film di Oliver Assayas in concorso a Venezia: Gilles, il protagonista, sta assistendo alla proiezione di un film sperimentale in un cinema 'alternativo' londinese quando, d'improvviso, sullo schermo gli appare la figura di Laure, la sua ex ragazza morta poco tempo prima in una notte di eccessi e baldoria. Rivederla in tutta la sua bellezza selvaggia, piena di vita e sensualità, lo fa commuovere. E' una magìa che riesce soltanto a chi fa cinema: la pellicola come mezzo estremo per fermare il tempo e fissare i ricordi, una delle tante ragioni per amare la Settima Arte. E anche uno dei più bei omaggi al cinema visti quest'anno al Lido (e non solo).

Basterebbe questa scena, come si dice, a ripagare il prezzo del biglietto. Ma visto che ci siamo vi invito cortesemente a vedervelo per intero questo bel film francese, purtroppo snobbato dalle giurie veneziane ma accolto benissimo da spettatori e critica. Qualcosa nell'aria NON è l'ennesimo film sul sessantotto, come molti critici distratti hanno scritto. Intanto perchè si svolge nel 1971, in un liceo classico della periferia parigina. E poi perchè soprattutto, come recita il titolo originale (Après Mai, riferito chiaramente al Maggio Francese), parla di quello che è accaduto DOPO la Grande Rivoluzione Culturale,  analizzandone gli effetti prendendo come esempio un gruppo di studenti dell'epoca.

In Qualcosa nell'aria (bellissimo titolo italiano, per una volta azzeccato) si parla di politica e militanza, quando queste due parole avevano ancora un senso. Ci si interroga, in modo genuino e onesto, sul rapporto tra politica e cultura visto con gli occhi dell'epoca. E si cerca di capire se quella stagione unica, mitica ed iconica, sia veramente sopravvissuta fino ad oggi e ci abbia trasmesso molto di più delle solite immagini di repertorio, fatte di camicie a fiori, capelli lunghi, spinelli e rock'n roll.

la risposta è ovviamente scontata. Anche perchè il film è dichiaratamente autobiografico: Assayas è nato nel 1955, ed aveva sedici anni al tempo del film. Logico che si rispecchi nel personaggio di Gilles, adolescente figlio di uno sceneggiatore cinematografico esattamente come nella vita reale. E allora chi meglio di lui stesso può riassumere l'essenza della pellicola? Dice il regista "Ho vissuto la mia adolescenza in un'epoca dove eravamo ossessionati dalla politica, non pensavamo ad altro, e anche il costante pensiero della Rivoluzione in atto non era foriero di euforia, bensì di responsabilità e anche di paura. Ricostruendo quel tempo in un film, non potevo fare una commedia, anche se ho cercato di raccontare l'amore, la presenza della natura, la tenerezza".

Qualcosa nell'aria è un viaggio nel passato, dentro un mondo che sembra lontano un secolo, ma che ci pare di rivivere negli occhi dei bravissimi protagonisti, sorretto da una sceneggiatura di ferro che riesce a diluire nelle due ore di proiezione i ritmi lenti e i momenti topici di una storia che è nello stesso tempo intima e condivisa, alternando momenti strettamente cinefili e personali ai grandi accadimenti del periodo. Per certi versi ricorda molto The Dreamers di Bertolucci, anche se quest'opera di Assayas ci sembra più 'reale' e meno poetica, e anche molto più attenta agli aspetti sociali di un passaggio fondamentale del secolo scorso.

Emblematica in tal senso un'altra scena-chiave del film, quando durante un cineforum estivo un militante contesta, dopo la visione di un documentario sulla Resistenza in Laos (!), "il linguaggio troppo classico di un film che vorrebbe essere rivoluzionario". La risposta dei 'compagni' del direttivo è straordinaria nella sua essenzialità: "I film devono 'educare' lo spettatore e un linguaggio incomprensibile rischia di farli assurgere solo a divertimenti autoreferenziali per un pubblico piccolo-borghese".  Una frase tipica dell'epoca che è ancora oggi una grande lezione di cinema.
Che anni quegli anni!

mercoledì 16 gennaio 2013

CLOUD ATLAS - TUTTO E' CONNESSO

(Cloud Atlas)
di Andy e Lana Wachowski, Tom Tykwer (USA, 2012)
con Tom Hanks, Halle Berry, Jim Broadbent, Jim Sturgess, Hugo Weaving, Doona Bae, Hugh Grant, Susan Sarandon, Keith David
VOTO: ****/5

Geniale o incomprensibile? Ambizioso o megalomane? Coraggioso o presuntuoso?
Forse tutte queste cose insieme... però se dovessimo trovare un aggettivo, uno solo, che meglio rappresenti Cloud Atlas, noi diremmo senza dubbio 'affascinante': il che, badate bene, non esclude nessuno di quelli già citati prima, ma a nostro modestissimo parere un'operazione del genere non può che suscitare ammirazione, se non altro per il fatto che film di questo genere nella Hollywood di oggi, conservatrice e con poche idee, sono sempre più difficili da vedere. Ed è indubbio che Cloud Atlas sia un film che affascina lo spettatore, almeno quello più 'cinefilo', perchè riesce a tenerlo incollato allo schermo per tutti i 172 minuti di lunghezza, cosa non certo scontata, e a dargli la sensazione di aver assistito a qualcosa di grande, anche se magari poi non è del tutto vero...

Ma che cos'è esattamente Cloud Atlas? Innanzitutto un film ciclopico, fin dai numeri: tre registi, sei storie intrecciate tra loro e dipanate in un arco temporale di 500 anni, una dozzina di attori che ricorrono in tutte le storie interpretando personaggi sempre diversi. Il risultato non poteva che essere discontinuo, non fosse altro perchè, appunto, realizzato a sei mani: da una parte i fratelli Wachowski, quelli di Matrix (anzi, fratello e sorella visto che Larry nel frattempo ha cambiato sesso e ora si chiama Lana), che hanno diretto gli episodi di fantascienza, dall'altra il tedesco Tom Tykwer che si è occupato di quelli del passato e presente. Eppure, nonostante questo, ciò che sorprende di Cloud Atlas è proprio l'insieme, la solidità del prodotto finito che riesce miracolosamente a reggersi in piedi, sia dal punto di vista narrativo che da quello strettamente filmico: infatti, malgrado l'incessante bombardamento visivo, fatto di continui rimandi e cambi di epoca, i nostri occhi non si stancano nemmeno per un attimo, passando dalle calde inquadrature dei mari del Pacifico alle asettiche atmosfere di una megalopoli del futuro. Con un lavoro nei dettagli assolutamente straordinario.

Tom Hanks e Halle Berry
Sei storie, dicevamo, il cui ordine temporale non rispecchia assolutamente le varie epoche. La sceneggiatura è basata sul romanzo omonimo di David Mitchell, che non abbiamo letto e non sappiamo perciò quanto fedele. Nel 1849 un avvocato idealista cerca di liberare uno schiavo ribelle. Nel 1936 un musicista omosessuale si offre di aiutare un collega vecchio e senza idee, per il quale nutre dei sentimenti (non ricambiati). Nel 1973 una bella e coraggiosa giornalista freelance cerca di sventare una minaccia nucleare. Nel 2012 un editore truffaldino si ritrova suo malgrado internato in un ospizio. Nella Seul del 2144 una ragazzina adolescente scopre di essere stata clonata allo scopo di nutrire e soddisfare la Razza Eletta, e cerca di ribellarsi al suo destino. Nel 2321, in una società post-disastro nucleare, regredita all'età della pietra, un pastore e una donna aliena cercano di fuggire in un pianeta più accogliente. E' impossibile raccontare altro e soprattutto capire tutto quello che succede, se non che le sei vicende si intersecano tra di loro fino a raggiungere una struttura circolare: la fine è l'inizio insomma, con tutti i significati che ne conseguono.

Hugo Weaving
Ma aldilà della complessità della messinscena, due sono le caratteristiche più evidenti di Cloud Atlas: la prima è che è una maestosa allegoria contro l'oppressione, i totalitarismi, le dittature, i poteri forti. In ogni episodio c'è un personaggio che è vessato da qualcun'altro, che lotta per conquistarsi la sua libertà, a dimostrazione che la Storia si ripete sempre e che non bisogna mai sottovalutare la stupidità del genere umano. I rimandi cinefili sono innumerevoli: da Matrix (ovviamente) a Blade Runner, a 2046 di Wong-Kar-Wai, a Inception di Christopher Nolan. La seconda è che nessuna delle sei storie è particolarmente originale, ma tutte messe insieme conferiscono al film un'indubbia potenza evocativa. Non diventerà certo il nuovo Intolerance (come qualche critico ardimentoso ha scritto) ma di sicuro Cloud Atlas ha dalla sua tutte le caratteristiche per diventare un cult. Questo non vuol dire che sia privo di difetti (alcuni clamorosi, come la banalità di certe situazioni che si vorrebbero far diventare scene madri, oppure dialoghi a volte così kitsch da scadere nel ridicolo involontario), e certamente l'orrendo doppiaggio italiano non aiuta, ma alla fine innegabilmente questa ambiziosissima e strampalata operazione riesce a convincerti. Forse è solo un complicatissimo esercizio di stile ma, come si diceva, tremendamente affascinante.

lunedì 14 gennaio 2013

SORPRESA AI GOLDEN GLOBES: VINCE AFFLECK, SPIELBERG BATTUTO

La gioia di Ben Affleck, vincitore di due Golden Globes per 'Argo'
Doveva essere una cerimonia senza sussulti e, come al solito, 'propedeutica' all'assegnazione dei premi Oscar: da sempre infatti i Golden Globes sono una prestigiosa 'anteprima' del premio maggiore, tanto da rispecchiarne il più delle volte quasi in fotocopia gli esiti... E invece stavolta la sobria e snella premiazione tenutasi all'Hilton Hotel di Beverly Hills ha sorpreso tutti: vince, tra lo stupore generale, Argo di Ben Affleck. La pellicola diretta dall'attore-regista californiano, che racconta l'incredibile vicenda di un gruppo di diplomatici americani tenuti segregati in un'ambasciata in Iran e tornati in libertà 'spacciandosi' per attori hollywoodiani, ha infatti sbancato i pronostici aggiudicandosi le statuette più ambite per il miglior film e miglior regia. Una bella soddisfazione per Affleck, considerato che l'Academy non lo ha neppure preso in considerazione per l'Oscar escludendolo dalla cinquina dei migliori...

Quentin Tarantino
Grande deluso è, ovviamente, Steven Spielberg: il suo Lincoln, plurinominato agli Oscar e  in pole position ai Globes si è dovuto 'accontentare' del solo premio al miglior attore protagonista, andato a Daniel Day-Lewis. Una sconfitta che però, a nostro parere, non dovrebbe ribaltare i pronostici della vigilia riguardo gli Oscar: in virtù delle sue dodici candidature Lincoln resta in ogni caso il film da battere agli Academy Awards. E' comunque il caso di sottolineare che i Golden Globes, premi assegnati dalla stampa estera di servizio a Los Angeles, hanno avuto stavolta molto più coraggio e spirito innovativo rispetto ai colleghi maggiori. Ma vedrete che il 24 febbraio prossimo al Kodak Theatre di Hollywood le cose andranno diversamente...

Jessica Chastain
Restando sui premiati, sottolineiamo anche il successo di Jessica Chastain tra le attrici drammatiche per Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow, e delle vittorie di Anne Hathaway e Christoph Waltz tra i non protagonisti, rispettivamente per Les Misérables e Django Unchained. Quentin Tarantino si è anche aggiudicato il premio per la miglior sceneggiatura. Ma i Globes, come gli appassionati sanno, assegnano anche i premi agli attori per la categoria commedia/musical: e qui ci fa enormemente piacere vedere premiata per la prima volta la splendida Jennifer Lawrence, brillantissima protagonista del film Silver Linings Playbook (uscirà in Italia a marzo con il titolo Il lato positivo). Tra gli attori invece vittoria a Hugh Jackman, sempre per la sua interpretazione ne Les Misérables.

Jennifer Lawrence
Scontata invece la vittoria di Amour di Michael Haneke tra i film stranieri (anche qui, ahimè, non c'era nessun italiano in gara), mentre Vita di Pi e Skyfall si portano a casa i premi per la miglior colonna sonora e miglior canzone originale (interpretata da Adele). Il Ribelle-The Brave invece si è aggiudicato la vittoria nella categoria dei film d'animazione.

sabato 12 gennaio 2013

OSCAR 2013: SPIELBERG IN POLE POSITION

i conduttori Emma Stone e Seth McFarlane
Con insolito anticipo rispetto alla tradizione, addirittura prima della cerimonia dei Golden Globes (mossa evidentemente strategica), ecco che la gioiosa macchina degli Oscar si mette in moto con tutta la sua potenza: l'annuncio delle nominations è infatti il primo atto ufficiale della corsa alle magiche statuette, che vedrà il culmine con la fastosa premiazione del 24 febbraio prossimo. In Italia sarà giorno di elezioni e di sicuro i vincitori passeranno pressochè inosservati. Noi di Solaris comunque daremo come sempre ampio risalto alla Notte delle Stelle, che quest'anno appare di nuovo sotto l'insegna della 'vecchia' Hollywood e della Restaurazione...

Grande favorito, infatti, con dodici candidature e tutte quelle più 'pesanti', non è altro che Steven Spielberg: ovvero colui che più di tutti incarna oggi il 'potere' e lo spirito hollywoodiano. Il suo Lincoln, maestoso biopic sugli ultimi mesi di vita del più famoso presidente della storia americana, si prepara a fare incetta di premi lasciando le briciole ai malcapitati comprimari. Le statuette come miglior film e miglior regia appaiono scontate, così come quella del protagonista Daniel Day-Lewis tra gli attori protagonisti. Da noi uscirà tra un paio di settimane e avremo modo di giudicarlo perbene, certo però che a prima vista la scelta dei giurati dell'Academy appare come la più scontata e conservatrice possibile, anche questo indubbiamente in linea con la tradizione...

Daniel Day-Lewis, truccatissimo in 'Lincoln'
Ma forse era normale, considerato che per ben tre volte negli ultimi tre anni il cinema degli Studios aveva marcato visita in sede di Oscar: addirittura per due volte nelle ultime due edizioni il premio per il miglior film è andato a due pellicole straniere (l'inglese Il discorso del Re e il francese The Artist), mentre nel 2010 si impose l'indipendente The Hurt Locker, diretto dalla brava Kathryn Bigelow. La stessa che quest'anno sfiderà Spielberg con il suo Zero Dark Thirty, thriller politico con la sinistra figura di Osama Bin Laden sempre ben presente sullo sfondo.

Lo sfiderà però per modo di dire, dato che la Bigelow non è neppure candidata per la regia e dovrà 'accontentarsi' semmai del premio alla produzione. Esattamente come il sottovalutato Ben Affleck: il suo Argo ha raccolto ben 7 nominations ma non quella (ingiustamente negata) come miglior regista. Peccato, perchè indubbiamente avremmo fatto il tifo per lui: consideriamo infatti Argo il film americano più moderno e innovativo tra tutti quelli usciti quest'anno, e gran merito del suo successo va riconosciuto proprio alla direzione di Ben Affleck, che ha davvero sorpreso tutti per la bravura. Ma tant'è.
la splendida Jennifer Lawrence ('Il lato positivo')

Nove sono infatti i candidati a miglior film: dopo i già citati Lincoln, Argo e Zero Dark Thirty, nella scheda i giurati dell'Academy troveranno anche i nomi di Vita di Pi, Les Miserables, Amour, Django Unchained e le vere sorprese dell'anno, vale a dire il tenero e spettacolare Il Re della Terra Selvaggia (diretto dal giovanissimo esordiente Behn Zeitlin) e la bella commedia tragicomica Silver Linings Playbook, che in Italia sarà distribuita col titolo Il lato positivo (e non L'orlo argenteo delle nuvole, come sembrava in un primo momento). Nella cinquina dei migliori registi però, come detto, entrano solo Spielberg, Haneke, Zeitlin, Ang Lee e David O. Russell (che ha diretto Il lato positivo e che una decina di anni fa girò il notevole Three Kings, desertico road-movie che raccontava la cronaca della 'caccia' al tesoro di Saddam Hussein).

Kathryn Bigelow sul set di 'Zero Dark Thirty'
Daniel Day-Lewis dunque si prepara trionfalmente a mettere in cascina il suo terzo Oscar (dopo quelli de Il mio piede sinistro e Il Petroliere). Poche infatti le chanches di successo dei rivali Denzel Washington (Flight), Hugh Jackman (Les Misèrables) e Bradley Cooper (Il lato positivo). L'unico che davvero potrebbe dargli fastidio è l'istrionico Joaquin Phoenix, superlativo in The Master e mai premiato prima. Sconcertante poi la decisione (come già accaduto altre volte in passato) di dirottare il 'collega' Philip Seymour Hoffman tra i NON protagonisti... Chi ha visto The Master non potrà non convenire che Hoffman ha una parte uguale (se non superiore) a quella di Phoenix, e che in fin dei conti è lui l'anima del film... ma forse è il vecchio trucco dell'Academy per premiare entrambi e rendere più visibile la pellicola (abbastanza ignorata nelle altre categorie): staremo a vedere. Certo che anche tra i non protagonisti la cinquina è di altissimo livello: oltre a Hoffman troviamo autentici 'mostri sacri' come Robert De Niro (splendido nonno rompiballe ne Il lato positivo), Alan Arkin (Argo), Tommy Lee Jones (Lincoln) e il vincitore del 2010 Christoph Waltz (Django Unchained, sempre con Tarantino).

Joaquin Phoenix, candidato per 'The Master'
Bella la competizione anche tra le attrici, finalmente con cinquine all'altezza dei colleghi maschi (sappiamo quanto sia difficile a Hollywood trovare ruoli femminili interessanti e di spessore): la brava Jessica Chastain potrebbe farcela con la sua performance in Zero Dark Thirty, ma dovrà guardarsi 'a vista' dall'altrettanto brava, bella, simpatica e dotatissima Jennifer Lawrence, per la quale non abbiamo mai nascosto di provare un debole: a soli 22 anni è già alla sua seconda candidatura all'Oscar, stavolta interpretando la vedova cinica e disillusa (nonchè esilarante) de Il lato positivo, dove riesce a tener testa perfino al grande De Niro. E scusate se è poco! Ma vedrete che al Kodak Theatre la vera star sarà la giovanissima (dieci anni!) Quvenzhanè Wallis protagonista de Il  Re della Terra Selvaggia. A farle da contraltare (altro record!) l'ottantacinquenne Emmanuelle Riva, inferma e morente nell' Amour di Haneke.
Tra le non protagoniste i riflettori cadono sul gradito ritorno di Sally Field (Lincoln) e sulla stronzissima Amy Adams di The Master: la lotta dovrebbe essere circoscritta a loro due. Ma è giusto menzionare anche la rediviva Helen Hunt (The Sessions), Anne Hathaway (Les Misèrables) e Jackie Weaver (Il lato positivo).

'Amour', grande favorito tra i film stranieri
Come vi sarete accorti, non abbiamo fatto alcun nome italiano. Perchè purtroppo non ce ne sono... la pellicola dei fratelli Taviani Cesare deve morire non è stata selezionata per il miglior film straniero (esattamente come il favoraitissimo Quasi Amici, sorpresa in negativo): a contendersi l'Oscar saranno, oltre a Amour (in gara per l'Austria), il cileno NO di Pablo Larrain, il norvegese Kon Tiki, il danese A Royal Affair e il canadese War Witch. L'unico altro rappresentante di casa nostra (si fa per dire) è il musicista-compositore italo-inglese Dario Marianelli, già vincitore nel 2008 con Espiazione e quest'anno di nuovo in gara con la colonna sonora di Anna Karenina. Davvero un po' poco.

Arrivati alla fine, è giusto parlare anche... di chi non c'è! Ovvero della lunga schiera dei 'delusi', a cominciare da Quentin Tarantino, mai troppo amato dall'Academy e snobbato nella cinquina dei registi, Esattamente, come abbiamo detto prima, per il connazionale Ben Affleck. Così come ancora una volta non c'è stato niente da fare per Leonardo Di Caprio (seppur bravissimo in Django Unchained) e neppur per Wes Anderson e il suo delizioso Moonrise Kindom. Ma l'esclusione più clamorosa è certamente quella di Christopher Nolan e del suo Dark Knight Rises (nemmeno una nomination). Appena meglio è andata (si fa per dire) a Peter Jackson (appena tre candidature tecniche per Lo Hobbit).
Per tutti questi... l'appuntamento è alla prossima edizione!

martedì 8 gennaio 2013

THE MASTER

(id.)
di Paul Thomas Anderson (USA, 2012)
con Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern
VOTO: ***/5

Era il titolo più atteso in assoluto della 69. Mostra del Cinema di Venezia, voluto a tutti i costi da Alberto Barbera tanto da inserirlo come 'film sorpresa' all'immediata vigilia della rassegna e inseguito fino all'ultimo giorno utile pur di averlo al Lido, dove era giunto con l'etichetta del 'film che parla di Scientology', ovvero uno dei misteri più impenetrabili e sinistri dei nostri anni. Logico dunque che le aspettative su The Master fossero inevitabilmente altissime. Forse troppo per quello che in fin dei conti, sarà banale dirlo, resta soltanto un film...

Già, perchè le domande sono principalmente due: se The Master fosse arrivato normalmente in concorso a Venezia anzichè con quest'alone da film-evento, misterioso e imperscrutabile, il nostro giudizio sarebbe sato differente? A essere onesti, probabilmente sì. E' chiaro che l'eccesso di attesa porta molte volte a rimanere delusi. Seconda domanda: ma, insomma, The Master è un bel film? Risposta: sì, lo è abbastanza. Ma non tanto da essere un capolavoro. E per essere ancora più chiari, non solo non era il miglior film del concorso veneziano, ma nemmeno tra tutti quelli diretti dal regista Paul Thomas Anderson: Magnolia, Boogie Nights, e soprattutto Il Petroliere ci erano piaciuti molto di più.

Doveva essere, almeno così ce lo avevano descritto, un film che avrebbe dovuto far luce sui segreti di Scientology, ovvero una delle associazioni più ricche, potenti, discusse e misteriose del mondo. Qualcuno la descrive apertamente come una setta, da dove è difficilissimo uscire una volta che se ne è entrati a far parte. Quello che è certo è che Scientology è un'organizzazione molto potente a Hollywood: fra i suoi membri annovera personaggi del calibro di Tom Cruise, John Travolta, Kirstie Allen e Juliette Lewis... Come dire: parlarne male o gettare apertamente ombre su di essa potrebbe essere molto pericoloso per chi vi si cimenta. Lavorativamente parlando, s'intende.

Sarà (forse) per questo che l'approccio di Anderson verso questa specie di loggia è, per così dire, abbastanza timido: innanzitutto nel film non vengono mai fatti i nomi nè di Scientology nè del suo fondatore, tale L.Ron Hubbard (scrittore di fantascienza abbastanza famoso che sul finire degli anni '50 si inventò una propria religione  - chiamata Dianetismo - basata principalmente sull'autostima e sul culto del proprio ego), anche se è evidente che il personaggio di Lancaster Dodd (interpretato di Philip Seymour Hoffman) ne è chiaramente ispirato.

E poi, soprattutto, The Master la smette abbastanza presto di scavare nelle crepe della misteriosa organizzazione per buttarsi a capofitto sul rapporto (latentemente omosessuale) tra il pigmalione Dodd e il suo allievo prediletto Freddie Quell (Joaquin Phoenix). Un rapporto, come prevedibile, morboso, malato e disturbante, fatto di eccessi, pratiche estreme, ricatti materiali e psicologici, lavaggi del cervello e innata reciproca attenzione. Non solo di sensi, ma anche di necessità complementari: Dodd è il 'guru' che cerca adepti per propagandare il suo credo, Quell è un poveraccio (reduce di guerra, traumatizzato, isterico, ossessionato dal sesso) che ha bisogno di soldi e fiducia...

In conclusione, The Master è un film bello ma irrisolto, un film su Scientology che non parla di Scientology... o comunque non ha il coraggio di farlo fino in fondo. E anche se certamente la sinistra setta resta sempre sullo sfondo, le luci della ribalta si accendono più che altro sui due straordinari interpreti, che si rubano la scena a vicenda e si mangiano il film, regalandoci un autentico manuale di recitazione. La Coppi Volpi vinta ex-aequo a Venezia è sacrosanta. The Master vorrebbe essere (anche) una riflessione sul potere suggestionale dei media e sulle insicurezze di un popolo apparentemente forte ma in realtà fragilissimo, che ha un bisogno smodato di autostima e ideali in cui credere (anche fasulli).
A volte ci riesce, a volte no, ma è inutile dire che film come questo meritano la visione 'a prescindere'. Anche solo come spunto di conversazione. Consigliato.

domenica 6 gennaio 2013

LA MIGLIORE OFFERTA

(The best offer)
di Giuseppe Tornatore (Italia, 2013)
con Geoffrey Rush, Sylvia Hoeks, Jim Sturgess, Donald Sutherland
VOTO: ***/5

"In un falso c'è sempre qualcosa di vero perchè un falsario, se è bravo, non perde mai la tentazione di inserire nella copia qualcosa di suo". Parola di Virgil Oldman, ricco e distaccato battitore d'aste, esperto antiquario e collezionista d'arte (anche con metodi poco cristallini), protagonista dell'ultimo film di Giuseppe Tornatore: per chi di voi ama il thriller e l'intrigo, in questa frase c'è tutto il significato della pellicola. Altro non  vi diremo, per non rovinarvi il gusto di andare al cinema e, più semplicemente, perchè la trama del film, tenuta segretissima fino all'ultimo istante dal regista siciliano, è in realtà molto meno complessa di quello che ci si potrebbe immaginare...

I lettori di questo blog, da appassionati di cinema quali sono (altrimenti non lo leggerebbero), sanno bene che  esistono due Tornatore diversi: uno è il Tornatore ambizioso, megalomane e nostalgico, perversamente attaccato alla sua terra, autore di noiosissimi polpettoni a largo budget e di scarso appeal come Baarìa, Malèna e L'uomo delle stelle. Poi c'è l' altro Tornatore, il suo fratello gemello, che per nostra fortuna ogni tanto sente il bisogno di restare coi piedi per terra e restituirci un cinema più genuino e più sincero, a misura d'uomo, fatto più col cervello che col cuore e con meno afflato epico. La migliore offerta, ultima sua fatica, rientra in questa categoria: siamo, per genere e atmosfere, dalle parti di Una pura formalità e La sconosciuta, guardacaso due dei suoi migliori film che, sempre non a caso, erano ambientati ben lontani dall'amata Sicilia: quasi come se il richiamo ancestrale delle proprie origini impedisse a Tornatore di girare film più maturi e tenere a bada l'aspetto emozionale.

Geoffrey Rush
Questo, intendiamoci, non vuol dire che La migliore offerta non sia un film emozionante, solo che le emozioni che ci traduce non sono affatto quelle che uno s'immagina. E, diciamolo subito a scanso di equivoci, se pensate di andare a vedere un thriller fatto di tensione, pathos e colpi di scena, ne rimarrete quasi sicuramente delusi. Primo, perchè l'azione è praticamente peri a zero: non ci sono sparatorie, inseguimenti, esplosioni e morti ammazzati. Secondo, perchè l'intreccio della storia è decisamente prevedibile e per nulla originale: insomma, uno spettatore di media intelligenza come colui che scrive capisce quasi subito come stanno le cose...

Sylvia Hoeks
Eppure, malgrado ciò, a noi La migliore offerta non è affatto dispiaciuto, perchè a nostro modestissimo parere sono ben altri gli elementi importanti di questa pellicola, che vanno oltre l'aspetto strettamente formale del film di genere. La migliore offerta è un film sorprendentemente molto intimo e personale, che parla di solitudine, vecchiaia, inadeguatezza, impotenza... La cosa che colpisce subito è infatti l'assoluto e agghiacciante stato di autoreclusione in cui vive il protagonista: Virgil Oldman è un uomo ricchissimo e potente, ineffabile e inflessibile sul lavoro, eppure incapace di qualsiasi slancio affettivo nella vita reale, in particolar modo verso il genere femminile, universo a lui totalmente sconosciuto e che gli si rivelerà sconvolgente quando dovrà scendere a patti proprio con una donna.

Geoffrey Rush e Giuseppe Tornatore sul set del film
Succede infatti che una giovane ereditiera, orfana e senza amici, invita Oldman nella decadente villa di proprietà per fargli eseguire una valutazione del patrimonio di famiglia. La ragazza però non è una cliente qualsiasi: soffre di una grave forma di agorafobia che non le permette di uscire dalla propria camera dove vive 'prigioniera' fin da bambina. Oldman resta subito colpito e affascinato dalla condizione della ragazza, capisce che essa è esattamente come lui: entrambi, a modo loro, hanno paura del mondo e difficoltà ad aprire il loro cuore: Oldman vive in una casa lussuosa, immensa, eppure sempre irrimediabilmente vuota. L'unica sua compagnia sono le centinaia di preziosissime tele che custudisce nel caveau, tutte raffiguranti figure femminili: le uniche donne con cui si sente a suo agio... almeno finora. Almeno fino all'arrivo della giovane Claire, sopraggiunta a sconvolgergli la vita con la forza di un tornado.

Mai sottovalutare le conseguenze dell'amore, era la regola di un grande film italiano di qualche anno fa. Oldman invece si lascia travolgere da una passione che non è in grado di controllare, essendo per lui una sensazione completamente nuova e sconosciuta. Di più, davvero, non possiamo dirvi. Salvo che La migliore offerta è un film che vi farà riflettere sui valori della vita, sul tempo che fugge, sul coraggio che serve per compiere scelte di vita importanti e non avere rimpianti in futuro... Oldman è un uomo che è 'nato vecchio' (il nome scelto da Tornatore non è certo casuale) e che scopre a sessant'anni di aver gettato via gli anni migliori della giovinezza, esattamente come la donna di cui si è innamorato.
Jim Sturgess

L'ultimo Tornatore, insomma, può definirsi una pellicola riuscita, sebbene come ripetiamo non abbia nè i tempi nè la struttura del thriller: a una prima parte lunga e descrittiva si sussegue un epilogo fin troppo movimentato e abbastanza scollegato dal resto del film. A reggere tutto sulle proprie spalle ci pensa però un bravo attore come Geoffrey Rush, perfettamente a suo agio nei panni del vecchio battitore d'asta algido e incapace di amare. Belli anche la scenografia e gli esterni del film, ambientato in un'imprecisata e grigia città mitteleuropea (nella realtà tra Trieste e Praga), quasi a testimoniare (parole dello stesso Rush) "il difficile rapporto tra la vecchia Europa, colta ed elegante, e l'Europa moderna, che deve aprirsi al futuro". Esattamente come le nostre vite.

giovedì 3 gennaio 2013

IL CINEMA CHE VERRA' - 10 TITOLI DA NON PERDERE

Carey Mulligan e Leonardo DiCaprio ne 'Il grande Gatsby'
Passati Natale e Capodanno, e con essi la 'sbornia' delle feste invernali (anche cinefile), con pochi sussulti e molte delusioni (gli incassi delle due settimane più 'calde' dell'anno sono piuttosto deludenti, segno tangibile della crisi economica che non accenna a fermarsi malgrado le ottimistiche previsioni di qualcuno) il cinema vero, quello di qualità, torna finalmente ad affacciarsi nelle nostre sale. Che annata sarà? Difficile fare previsioni, però sono davvero tanti i titoli sulla carta interessanti che arriveranno sui nostri schermi da qui a primavera. Alcuni dei più attesi sono praticamente in dirittura d'arrivo e ne parleremo nei prossimi giorni, per altri dovremo aspettare di più, ma a prima vista la scelta appare fortunatamente ampia e variegata.

E allora vediamo quali saranno i dieci titoli che, a giudizio insindacabile di Solaris, lasceranno il segno in questo inizio 2013. Eccoli, in rigoroso ordine di... aspettativa!

IL GRANDE GATSBY (di Baz Luhrmann - uscita prevista: 13 maggio)
Il più bel romanzo americano del secolo scorso trasposto sullo schermo dal genio visionario e sognatore di Baz Luhrmann: cast sontuoso (Leonardo di Caprio e Carey Mulligan), confezione extralusso (vedere il trailer per farsi un'idea), girato in uno sfolgorante 3D qui finalmente usato al massimo delle sue potenzialità: ci aspettiamo solo il capolavoro.
 

ZERO DARK THIRTY (di Kathryn Bigelow - uscita prevista: 7 febbraio)
Inevitabile che Hollywood non dedicasse un film alla cattura di Osama Bin Laden. Meno ovvio che ne affidasse la regia a Kathryn Bigelow, trasformandolo in un robusto film d'azione e rendendolo molto meno 'allineato' di quanto si creda, oltretutto affidando la parte principale a una donna (Jessica Chastain, in odore di Oscar). In patria ha fatto discutere ma chi lo ha visto ne parla come un evento. 


FRANKENWEENIE (di Tim Burton - uscita prevista: 17 gennaio)
Tim Burton 'dilata' in un fulgido bianco e nero uno dei suoi corti più famosi e amati, promettendo di restare fedele alla suo cinema di sempre: la storia di Sparky, cagnolino riportato in vita grazie alla scienza, omaggia ancora una volta i 'diversi' e gli umili, dimostrando che i veri mostri sono quelli che vivono con noi... Una meraviglia dark che promette risate e emozioni, quelle che sono mancate negli ultimi film di Burton.
 

NO (di Pablo Larrain - uscita prevista: febbraio)
Dopo Tony Manero e Post Mortem, il cileno Pablo Larrain chiude la sua trilogia sulla dittatura, questa volta senza allusioni o allegorie: NO è la cronaca della campagna elettorale per il referendum che deciderà il destino della sua nazione, soffocata dal regime di Pinochet. Film rigoroso, emozionante, con un Gael Garcia Bernal in grande spolvero. Candidato all'Oscar per il miglior film 
 straniero. 

GANGSTER SQUAD (di Ruben Fleischer - uscita prevista: 21 febbraio)
Promette, con buona dose d'incoscienza, di essere il nuovo C'era una volta in America. Siamo nel 1949, e una squadra sceltissima di poliziotti dovrà provare a fermare la cupola mafiosa che controlla il traffico di droga e armi a Los Angeles e dintorni. Ombettivo ambizioso per un film che schiera uno dei cast più strabilianti visti negli ultimi anni: Ryan Gosling, Sean Penn, Josh Brolin, Emma Stone, Nick Nolte.
 

IL LATO POSITIVO (di David O. Russell - uscita prevista: 7 marzo)
Una commedia che ci aspettiamo frizzante, irriverente, politicamente scorretta, diretta da quel David O. Russell che anni fa si fece apprezzare con Three Kings, avvincente ricostruzione della caccia al tesoro di Saddam Hussein. Bradley Cooper ha i tempi giusti della commedia, Bob De Niro gigioneggia divertito, ma la vera star è la splendida Jennifer Lawrence, in corsa per l'Oscar.
 

QUALCOSA NELL'ARIA (di Oliver Assayas - uscita prevista: 17 gennaio)
A Venezia è stato in corsa fino all'ultimo per il Leone d'Oro, poi si è dovuto 'accontentare' della statuetta per la migliore sceneggiatura. Meritatissima. Un bel ritratto dell'universo post-sessantottino (il titolo originale, Après Mai, si riferisce al Maggio francese) visto con gli occhi di un regista sinceramente coinvolto e appassionato. Nient'affatto nostalgico, impone una doverosa riflessione sui nostri tempi.

LES MISERABLES (di Tom Hooper - uscita prevista: 31 gennaio)
L'ennesima versione del celebre romanzo di Victor Hugo si candida a essere il musical dell'anno: basato sull'omonimo spettacolo teatrale visto da quasi 60 milioni di persone in ogni parte del mondo, il film diretto da Tom Hooper (fresco di Oscar per Il discorso del re) promette spettacolo e messinscena adeguata. Cast stellare: Hugh Jackman, Russell Crowe, Anne Hathaway, Amanda Seyfried, Sacha Baron Coen. Tutti cantano con la loro voce.
 

DJANGO UNCHAINED (di Quentin Tarantino - uscita prevista: 17 gennaio)
Che lo si ami o lo si odi, ogni film di Tarantino è ormai un evento planetario, destinato a far discutere ancora prima di uscire. Qui il regista di Knoxville 'saccheggia' il suo genere preferito, lo spaghetti-western, infarcendolo della solita violenza sopra le righe e i consueti omaggi cinefili. Genio o sregolatezza? A voi la sentenza. Tra qualche giorno.
 

LA GRANDE BELLEZZA (di Paolo Sorrentino - uscita prevista: aprile)
L'unico film italiano della lista. Lo dirige Paolo Sorrentino ed è un affettuoso e appassionato omaggio a Roma, vista dagli occhi di un giornalista sui generis interpretato dal 'solito' Toni Servillo. Non si sa molto di questa produzione e Sorrentino è abilissimo ad alimentare la sorpresa. Lo aspettiamo per la fiducia che riponiamo verso il nostro cineasta più 'smaliziato'...