domenica 29 aprile 2012

JODIE 50 - I FILM - Taxi driver

Il suo compleanno è il 19 novembre, ma noi cominciamo a festeggiarla adesso... perchè? Perchè Jodie Foster, al traguardo del mezzo secolo, è l'attrice 'moderna' che a nostro modestissimo parere ha meglio omaggiato il Cinema in tutti i suoi aspetti: l'abbiamo vista crescere (letteralmente) dietro la macchina da presa, l'abbiamo ammirata in ruoli sempre diversi a seconda delle stagioni della sua (e nostra) vita, l'abbiamo seguita in ogni sua trasformazione artistica. Sì, Jodie ci piace parecchio, non l'abbiamo mai nascosto... non sarà una 'moral guidance' (come ha fatto con Clint Eastwood il settimanale FilmTv), ma per noi rappresenta la bravura, la professionalità, l'incarnazione per un lavoro che fin da subito le è entrato dentro. Jodie è una perfetta 'macchina per recitare'. E noi la ricordiamo con i suoi film, che ci hanno accompagnato per mano. Crescendo insieme a lei.


TAXI DRIVER (id., USA 1976) di Martin Scorsese

Dodici anni (all'epoca delle riprese), già quattordici film alle spalle e un carattere d'acciaio (forgiato da un'infanzia trascorsa in modo non proprio... ordinario). Logico che la piccola Jodie, alla richiesta della madre di farla seguire da uno psicologo durante le riprese, abbia risposto candidamente "So distinguere benissimo la realtà dalla finzione". C'erano dubbi? Non per Martin Scorsese, che la volle a tutti i costi per quello che, a tutt'oggi, è ancora considerato il suo capolavoro. Un film-manifesto, simbolo della fine di un'epoca (quella del Sogno Americano) e della perdita dell'innocenza di una nazione intera che, all'indomani del Vietnam, si scopriva inopinatamente fragile e inquieta. 

Taxi Driver è la cronaca di una sconfitta, di una società che si rivela improvvisamente ostile e abietta, popolata di persone che non si conoscono, non si parlano, non vivono. Ci sono candidati alle elezioni che non capiscono nulla, uomini d'affari che spiano le loro mogli fedifraghe, donne senza morale e donne sfruttate, schiave e peccatrici, spesso entrambe le cose. Feccia, nient'altro che feccia.

In questo contesto Travis Bickle appare come la variabile impazzita, uno che sa di aver perso ma che non rinuncia a volere un mondo migliore. Forse, magari, per il semplice fatto di non riuscire a dormire. E' l'emblema della solitudine, dello spaesamento, dell'incapacità degli uomini di capire e di capirsi. Vaga in giro per la notte col suo taxi, semplicemente per sopravvivere, per stare al mondo, l'unico che conosce ma non l'unico possibile. Il suo personaggio ci ricorda un celebre racconto di E.A. Poe, 'L'uomo della folla', dove il protagonista si addentrava solitario in mezzo alla gente, semplicemente per non ascoltare il rumore del silenzio.

Ed ecco, allora, che la giovane prostituta Easy è allo stesso momento simbolo di deriva e di redenzione, di ingenuità e maturità precoce, di sacro e profano. Gli occhi della piccola Jodie sono quelli di chi, a dodici anni, hanno già visto tanto... cinema nel cinema, non troppo diverso, poi, dalla vita.   

domenica 22 aprile 2012

PICCOLE BUGIE TRA AMICI

(Les petits mouchoirs)
di Guillaume Canet (Francia, 2010)
con François Cluzet, Marion Cotillard, Benoit Magimel, Gilles Lellouche, Laurent Laffite, Jean Dujardin
VOTO: ***

Arriva da noi dopo due anni, Piccole bugie tra amici, e solo sull'onda dell'Oscar a Jean Dujardin (che, per inciso, qui ha una solo una piccola parte, seppur determinante). Diciamo anche che il film è un evidente remake (non sappiamo se dichiarato o meno) de Il grande freddo di Lawrence Kasdan, mirabile esempio di pellicola 'generazionale', divenuta all'istante di culto per il contesto sociale dell'epoca (su cui torneremo) e poi imitata in tutte le salse negli anni a venire.  C'erano tutte le premesse, insomma, affinchè la terza regìa di Guillaume Canet arrivasse dai noi 'fuori tempo massimo', in tutti i sensi.

E invece no. Piccole bugie tra amici non è affatto un film inutile, sebbene sia pieno di evidenti difetti. E proverò a spiegarvi il perchè... cominciando dalla trama. Ludo (Jean Dujardin) è un quarantenne brillante e modaiolo (nonchè assiduo cocainomane) che viene travolto da un camion mentre, in scooter, sta rientrando dalla discoteca. L'incidente getta nel panico la sua compagnia di amici, un gruppo di coetanei della Parigi-bene, che si trova improvvisamente di fronte a un dilemma inaspettato: partire per la già programmata vacanza collettiva sull'Atlantico, oppure rinunciare ed assistere il compagno moribondo?

Ora, se avete visto Il grande freddo 'originale', già saprete che a questo punto la pellicola arriva a sviscerare i caratteri, la personalità, i vizi, le manìe, lo stile e il modo di intendere la vita del gruppo di amici, ognuno più o meno prigioniero di segreti insospettabili, scheletri nell'armadio e reciproche incomprensioni, e 'costretti' dagli eventi a scendere a patti con loro stessi e gettare la maschera nei confronti degli altri. E proprio in questa carrellata di 'varia umanità' sta uno dei difetti più evidenti del film, nel senso che la sceneggiatura individua, davvero, troppi stereotipi di 'sfigato di successo', qualcuno di livello quasi caricaturale (il borghese 'arricchito' che ostenta i suoi soldi, il padre di famiglia che si scopre gay, l'attivista-sinistroide-sofisticata che aiuta i bambini in Amazzonia e scopa con chiunque le si avvicini...).

Nonostante questo, però, e malgrado la durata chilometrica (oltre due ore e mezza, davvero troppe), Piccole bugie tra amici ha un grande merito: proprio come l 'originale' americano, anche questo è un film che inquadra perfettamente una generazione, e lo fa senza sconti e con sorprendente lucidità. L'analisi non è ovviamente positiva, in quanto i quarantenni di Canet sono personaggi la cui vita privata è scandita da ipocrisia ed egoismo, e rispecchiano fedelmente il nostro tempo.

 In questo senso, la differenza con Il grande freddo è sostanziale, anzi possiamo dire che le due pellicole sono in perfetta antitesi: se nel film di Kasdan era la morte dell'amico a 'riavvicinare' il gruppo e ricucire i rapporti umani al suo interno, sullo sfondo di un'epoca non propriamente tranquilla (erano gli anni del post-Vietnam), in Piccole bugie tra amici il dramma occorso a Ludo/Dujardin finisce invece per sgretolare irrimediabilmente la compagnia, che non ci pensa troppo a partire per le ferie 'scaricando' l'amico in ospedale senza troppi rimorsi. Ma la vacanza al mare si trasformerà in un'inevitabile resa dei conti tra persone che non si sopportano più, e che da troppo tempo sono costrette a fingere una 'vita serena' per conciliare i fragili equilibri di gruppo.

Insomma, è il caso di dire che il film di Canet funziona. Merito anche di un ottimo cast, affiatato ed eterogeneo, che ci fa (ri)vivere un incubo ad occhi aperti. E bisogna dire che, depurata dalle lungaggini di cui abbiamo già detto, la pellicola riesce a toccare i nervi scoperti dello spettatore, regalandogli un'ultima mezz'ora memorabile per tensione, trasporto ed emotività. E' il classico film in cui ognuno di noi, purchè abbia l'età dei protagonisti, può più o meno confrontarsi o rispecchiarsi, e magari farsi un piccolo esame di coscienza. E' 'solo' cinema, ma non è poco.

sabato 21 aprile 2012

TO ROME WITH LOVE

(id.)
di Woody Allen (USA, 2012)
con Woody Allen, Ellen Page, Jesse Eisenberg, Judy Davis, Roberto Benigni, Penelope Cruz, Alec Baldwin, Alessandro Tiberi, Alessandra Mastronardi, Ornella Muti
VOTO: *

Basta. Credo proprio che To Rome with love sarà l'ultimo film di Woody Allen che recensisco. Lo dico senza particolare enfasi e senza alcuna cattiveria: se sono arrivato a questa decisione è semplicemente per stanchezza, una stanchezza che ormai mi si presenta puntualmente ad ogni nuova (?) opera del regista newyorchese. Sì, perchè ormai i film del vecchio Woody sono come la naftalina, nel senso che anche se nuovi odorano terribilmente di vecchio, di già visto, di assolutamente scontato.

E' inutile girarci intorno, e per favore smettiamola di farci condizionare da un 'rispetto' ipocrita per un cineasta dal grande passato: To Rome with love è un film imbarazzante per la sua ovvietà, un 'compitino' svolto su commissione che fa gridare vendetta a chi ancora si illude di ritrovare la 'verve' dell'Allen vecchia maniera. Del resto bastava vedere l'intervista di qualche giorno fa di Roberto Benigni, ospite di Fabio Fazio a 'Che tempo che fa', per capire l'aria che tirava sul set: il Robertone nazionale faceva i salti mortali per non fingere di aver prestato la sua faccia per solo proprio tornaconto professionale...

I novanta minuti di To Rome with love sono un'accozzaglia miserrima di luoghi comuni e amene banalità sul nostro paese, tanto che mi viene da chiedermi dove siano finiti adesso tutti quelli che a suo tempo 'crocifissero' Mangia, prega, ama di Ryan Murphy, 'reo' di aver fornito un'immagine stereotipata della nostra bella Italia... qui si comincia e si finisce con 'Nel blu dipinto di blu' , e si assiste a una serie di situazioni così 'telefonate', nonchè tipicamente 'nostrane' (nel senso più dispregiativo possibile), che fanno quasi rimpiangere i cinepanettoni: forse (anzi, decisamente) più volgari, ma certo più onesti. Anche se, ad essere sinceri, i quattro episodi del film ricordano più Manuale d'amore che Vacanze a Cortina (anzi, a Roma). In ogni caso il peggio del peggio della nostra filmografia recente.

Scritto in fretta e furia, girato ancora più velocemente per anticiparne l'uscita prevista inizialmente a novembre (chissà perchè poi tutta questa fretta), To Rome with love è il punto più basso della carriera di Allen. Dei quattro episodi, solo quello interpretato da lui e Judy Davis si salva, grazie alla professionalità di attori 'stagionati' e qualche lampo di sceneggiatura ancora efficace (anche se le battute più divertenti ricadono sempre, tanto per cambiare, su ebrei e psicologia) mentre sugli altri tre è meglio stendere un velo pietoso: la coppia Tiberi-Mastronardi, con la partecipazione di Penèlope Cruz, è da codice penale, Ellen Page nei panni di femme fatale è credibile come Beppe Grillo nel ruolo di politico... E poi c'è Benigni. Di cui, come sapete, sono un fan irriducibile e di vecchissima data, e vorrei sempre spendere per lui le migliori parole possibili. Ma vederlo 'ingabbiato' in un episodio demenziale come questo mette solo tristezza.        

domenica 15 aprile 2012

DIAZ - DON'T CLEAN UP THIS BLOOD

(id.)
di Daniele Vicari (Italia, 2012)
con Jennifer Ulrich, Claudio Santamaria, Elio Germano, Davide Iacopini, Renato Scarpa
VOTO: ****

Mi è capitato spesso di piangere al cinema, non mi sono mai vergognato ad ammetterlo. Ho pianto di commozione e di gioia, ma mai prima d'ora mi era successo di piangere di rabbia. Mai, prima di aver visto Diaz. Il film di Daniele Vicari è sconvolgente, durissimo, impossibile da rivedere una seconda volta, almeno per il sottoscritto. Le lacrime che ti fa versare sono lacrime di sdegno, di vergogna per un paese e per le sue istituzioni, che a undici anni di distanza non hanno ancora pronunciato una sola, misera parolina di cinque lettere, l'unica possibile per una nazione che rivendica il diritto di definirsi 'democratica'.

E infatti la frase che accompagna il film, e che vediamo riportata in tutte le locandine, parla chiaro: secondo Amnesty International quello che è successo nella scuola Diaz e in seguito nella caserma di Bolzaneto (Genova), nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, è 'la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dalla seconda guerra mondiale a oggi'. Da quello che si vede nelle immagini, certo non si fa fatica a crederci. Intendiamoci, Diaz non è un film che contiene particolari rivelazioni o risvolti inediti sui fatti del G8 genovese. Anzi, non dice assolutamente niente di nuovo. Non è un film d'inchiesta, nè tantomeno di 'impegno civile'. Racconta fatti tutto sommato recenti e che dovrebbero in qualche modo 'preparare' lo spettatore a quello che sta per vedere.

Claudio Santamaria
Ma nonostante questo, o forse soprattutto per questo, le scene di violenza, massacro, pestaggi, torture, sevizie che si svelano ai nostri occhi, più e più volte nel corso della pellicola, risultano quasi insostenibili alla vista, inconcepibili a una mente razionale, in quanto è impossibile ogni volta non riflettere sul fatto che sarebbero potute accadere a chiunque di noi, che avesse avuto la sfortuna quella notte di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. In quella notte infatti i poliziotti che fecero irruzione nelle scuola, al preciso ordine di 'sgomberare un manufatto di pericolosi anarco-insurrezionalisti', entrarono con l'intento massacrare di botte chiunque gli si trovasse davanti, quasi come una 'ricompensa', una 'valvola di sfogo' per le pressioni a cui erano stati sottoposti nei giorni precedenti.

Jennifer Ulrich
Sono immagini tremende, che lasciano il segno. Come ha detto lo stesso regista, 'Fino a quando non ho letto gli atti del processo, avevo anch'io interpretato i fatti di Genova in senso politico, come la repressione di un movimento che si oppone a un sistema. Il che rientra anche in una certa logica, io mi ribello, lo Stato mi combatte. Ma quello che è accaduto lì dentro va ben oltre, riguarda la perdita della dignità di essere umano'.  Alberto Crespi, nella sua ottima recensione su L'Unità, ha paragonato Diaz a Salò di Pasolini, e il paragone non è certo blasfemo. Quello che vediamo è horror allo stato puro, oltretutto con una scelta stilistica particolarmente efficace, che Vicari ha spiegato come un omaggio a Rapina a mano armata di Kubrick: le vicende che vediamo susseguirsi non sono raccontate secondo l'ordine temporale, ma alternando i vari punti di vista (della polizia e dei manifestanti), 'obbligando' così lo spettatore a vedere e rivedere ogni volta le stesse scene, quasi come un contrappasso dantesco.

Elio Germano
Mai come questa volta, però, l'aspetto stilistico passa in secondo piano nel dare un giudizio al film. Il solo fatto che scateni queste emozioni, questa rabbia, questo stato d'animo, significa che ha raggiunto lo scopo. La sequenza della ragazza nuda, pestata a sangue, umiliata, derisa, spogliata della sua dignità esattamente come in lager nazista, vale più di mille articoli di giornale o trattati sul tema. Il regista, per sua stessa ammissione, ha voluto omettere qualsiasi nome e cognome dei protagonisti della storia, politici compresi. Questo perchè 'I nomi riguardano la cronaca, e il film sarebbe così invecchiato o circoscritto a questi fatti.' In questo modo, invece, Diaz resterà per sempre come la testimonianza di un'indicibile vergogna. 

p.s. vale la pena sottolineare che, a tutt'oggi, il governo 'tecnico' presieduto da Mario Monti e il Ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri, hanno espressamente fatto divieto ai rappresentanti delle forze dell'ordine di -testualmente- parlare o concedere interviste riguardo al film, se non espressamente autorizzati.    

sabato 14 aprile 2012

I PRIMI DELLA LISTA

(id.)
di Roan Johnson (Italia, 2011)
con Claudio Santamaria, Francesco Turbanti, Paolo Cioni
VOTO: ****

Pisa, 1970. Cronaca di una 'bischerata' memorabile. Due liceali, pluriripetenti e inclini più alla musica che ai libri, aspettano un'audizione nientepopodimeno che dal 'cantautore resistente' Pino Masi, autore de 'La ballata del Pinelli' (sic!) e musicista 'di culto' per la sinistra dell'epoca. Ma il Masi non ha tempo per starli a sentire: nell'Italia del dopo Piazza Fontana si susseguono le voci di un golpe militare, sull'onda di quello accaduto in Grecia pochi mesi prima. Non c'è un minuto da perdere: 'precettati' i due studentelli (non troppo convinti, in verità), nonchè la macchina di uno di loro,  il terzetto si dirige verso la Jugoslavia del 'compagno' Tito, deciso a varcare il confine prima del colpo di stato...

Naturalmente nulla andrà come deve andare, anche perchè non c'è nessun golpe in vista: i carri armati incontrati durante la 'fuga' in realtà stanno andando a Roma per la parata del 2 giugno, così come il confine Jugoslavo si rivela meno amichevole del previsto: meglio dirottare allora sulla frontiera austriaca e chiedere asilo politico al governo di Vienna... in ogni caso in fretta, perchè con i militari al potere è chiaro che gli 'intellettuali' come loro saranno 'i primi della lista' dei ricercati!

I primi della lista, opera prima del regista anglo-italiano Roan Johnson, è un tripudio di risate, gag, divertimento e tanta, tanta ironia. Ma nient'affatto stupido: anzi, possiamo dire che questo filmetto apparentemente esile e scanzonato, giocato sapientemente sull'arte comica dell'equivoco, riassume in tono canzonatorio ma efficacissimo lo spirito paranoico e rivoluzionario dell'epoca, incentrato sulla psicosi delle bombe, degli anni di piombo, dello scontro di classe.

Claudio Santamaria
Il film di Johnson è un piccolo gioiello di sceneggiatura, interpretato in maniera magnifica da tre attori bravissimi: il già noto Claudio Santamaria (che fa il Masi) e i due debuttanti Paolo Cioni (il Gismondi) e Francesco Turbanti (il Lulli). Il trio è affiatato e scoppiettante, perfetto per interpretare un road-movie sconclusionato e terribilmente comico, infarcito di quella 'toscanità' schietta, spontanea e irriverente, perfetta per un soggetto del genere. Un film dallo sguardo disincantato su ciò che è accaduto 'ieri', ma che sotto sotto ci induce neanche troppo velatamente a guardare ai giorni nostri, raffrontando le paure dei giovani di oggi con quelli degli anni '70. E scoprendo che, tutto sommato, non sono cambiate di molto: la fuga, l'insicurezza, l'instabilità, la precarietà.

Cioni, Santamaria, Turbanti
Ah, dimenticavo di dirvi che... beh, questa storia è così assurda da essere successa davvero. Non perdetevi i titoli di coda, con i tre attori che incontrano fisicamente i tre 'bischeracci' di allora, sulle note di 'Quello che non ho' di De Andrè. E vedendo quelle immagini, c'è perfino un sussulto di commozione.

p.s. Ancora un'altra cosa: nel dicembre dello stesso anno, quel fatidico 1970, l'aristocratico fascista Valerio Borghese tentò davvero la 'marcia su Roma', sventata all'ultimo istante. E allora, forse, il Masi non aveva proprio tutti i torti...


giovedì 12 aprile 2012

GIORDANA, MORETTI, SORRENTINO: SPRINT PER I DAVID

Romanzo di una strage
Giordana, Moretti, Sorrentino in prima fila, i Taviani e Crialese di rincorsa: la griglia di partenza per i David di Donatello 2012  è ben definita dalle candidature annunciate oggi dal 'presidentissimo' Gian Luigi Rondi. In pole position (16 nominations, praticamente il pieno) troviamo Romanzo di una strage, rigorosa e accurata ricostruzione di uno dei tanti, tragici, misteri italiani, impreziosita dalle ottime prestazioni dei suoi interpreti. Subito a ruota seguono Habemus Papam (15 candidature), riflessione tutta 'morettiana' sui dubbi e l'inadeguatezza dei potenti,  e This must be the place (14) bizzarro ed iniziatico road-movie che segna il debutto 'americano' di Sorrentino. Più staccati, Cesare deve morire (8 nominations) trionfatore a Berlino e Terraferma (6) due titoli che, a loro modo, parlano di emarginazione e dignità dell'uomo.

Habemus Papam
Temi 'forti', quindi, nettamente in controtendenza col panorama commerciale del cinema italiano, che vede la produzione nazionale incentrata quasi totalmente sulle commedie. Molte delle quali, è bene dirlo, abbastanza insulse e ben poco convincenti, eppure campioni d'incassi. A riprova di uno 'scollamento' evidente (e anche preoccupante, direi) tra cinema di qualità e cinema commerciale. Non si può infatti non sottolineare come i titoli sopracitati, per quanto tutti più o meno acclamati dalla critica, non abbiano certo fatto sfracelli al botteghino (solo Sorrentino si difende, ma unicamente per la vocazione 'internazionale' del suo film). E anche commedie più 'colte' e dignitose come Posti in piedi in paradiso o La kryptonite nella borsa, in proporzione, non hanno certo brillato.

Per contro, al vertice dei botteghini italici troviamo titoli come Benvenuti al nord, Immaturi, Vacanze di Natale a Cortina e (sic!) I soliti idioti. E credo che una riflessione debba essere fatta, a proposito di 'educazione' e livello culturale dello spettatore medio...

This must be the place
Chi vincerà? Difficile dirlo, sono tutti molto vicini. Certo, per il sottoscritto Habemus Papam è una spanna sopra tutti, ma Romanzo di una strage è un film che ha il vantaggio di piacere a tutti, mescolando bene qualità artistica e impegno sociale. E la lotta tra queste due pellicole si rifletterà anche sulla sfida tra gli attori, dove Michel Piccoli e Valerio Mastandrea si giocheranno il successo fino all'ultimo voto (ma occhio anche a Elio Germano, nominato per Magnifica presenza). Tra le attrici risulta abbastanza imbarazzante la nomination a Michaela Ramazzotti (Posti in piedi in paradiso), ma tra Valeria Golino, Donatella Finocchiaro, Claudia Gerini e la cinese Zhao Tao (Io sono Li) uscirà una degna vincitrice.

Ma l'importanza dei David di Donatello si rifletterà, soprattutto, anche sulla scelta del candidato italiano che rappresenterà l'Italia agli Oscar del prossimo anno. Selezione che, appunto, compete alla commissione selezionatrice dei David. E allora, escludendo Terraferma e Habemus Papam, usciti nel 2011 e quindi non candidabili per i regolamenti dell'Academy (Terraferma, tra l'altro, fu il candidato italiano dell'anno scorso, con poca fortuna), e anche This must be the place (girato in inglese) la scelta si restringe a pochi nomi.  Vogliamo fare un pronostico? Beh, non sono mai stato bravo... però direi che Cesare deve morire, per struttura, argomento, messa in scena e prestigio, sarebbe perfetto per 'volare' a Hollywood. Io tifo per i Taviani.

TUTTE LE CANDIDATURE

lunedì 9 aprile 2012

ROMANZO DI UNA STRAGE

(id.)
di Marco Tullio Giordana (Italia, 2012)
con Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Fabrizio Gifuni, Giorgio Colangeli, Michela Cescon
VOTO: ****

Ci sono dei film sui quali è terribilmente difficile dare un giudizio obiettivo, separando l'aspetto emotivo da quello strettamente cinefilo, e Romanzo di una strage ne è un ottimo esempio. Di solito quando si parla di film come questo l'aggettivo più banalmente usato è 'necessario', seguito a ruota da 'coraggioso'. Beh, diciamo che coraggioso lo è di sicuro, perchè girare un film del genere nell'Italia di oggi è certamente un'impresa: in un paese dove si producono ormai solo commedie volgarotte e stupide, e dove lo sport nazionale dell'abitante medio è mettere la testa sotto la sabbia e far finta di nulla, trovare un regista ostinato (e fortunatamente recidivo) nel riportare alla luce pagine nerissime (in tutti i sensi) della nostra storia è indice di grande coraggio.

Sono invece sempre più dubbioso, purtroppo, sul fatto che questi film siano 'necessari': necessari a chi? Non a chi quegli anni li ha vissuti sulla propria pelle, e magari ne porta ancora addosso le conseguenze. Non a quelli come me, che all'epoca non erano ancora nati o erano troppo giovani, ma che hanno avuto genitori e nonni prodighi di racconti e preziosi nel mantenere viva la memoria storica. Dovrebbe essere quindi un film 'necessario' alle nuove generazioni ma, realisticamente, vi illudete che ai giovani di oggi, alle prese con mille dubbi sul presente e pochissime certezze sul proprio futuro, possa importare qualcosa della nostria storia recente? Vi dico solo che in sala oltre a me c'erano una trentina di spettatori, e io ero quello più giovane (considerate che sto per compiere quarant'anni...)

Eppure Romanzo di una strage si rivolge proprio a loro, alla meglio gioventù (se ancora esiste) del nostro tempo, implorandoli a non dimenticare e a reagire, per non darla vinta a chi negli ultimi quarant'anni ha cercato sistematicamente di rimuovere ogni cosa, tramando nell'ombra, per far sì che la gente non sapesse e non si indignasse. C'è una scena emblematica nel film, che strappa il cuore per commozione e pathos: quando l'aristocratico di estrema destra, che cerca di organizzare un 'golpe' nero, assiste silenziosamente in tv alla folla oceanica di gente che rende omaggio alle vittime dell'attentato, e capisce subito di essere stato sconfitto: in quella muraglia umana c'era l'Italia che resisteva e rivendicava la propria libertà, il diritto ad essere una democrazia.

Per questo il film di Marco Tullio Giordana è bello e importante, aldilà degli aspetti stilistici. Lo è perchè si ostina donchisciottescamente a tener viva la memoria e la speranza di un futuro migliore, in una nazione che è sempre più ripiegata su se stessa e poco incline ad imparare dai propri errori. E questo basta e avanza per consigliarvelo. Non date retta a chi lo critica sostenendo che 'non prende alcuna posizione'... secondo voi è compito di un film scoprire la verità? Quello che non è stato fatto in oltre quarant'anni di inchieste, indagini, perizie, processi rifatti più e più volte, che non hanno portato a nessun colpevole, può venir fuori in due ore di fiction

No, Romanzo di una strage non è un documentario su Piazza Fontana. E nemmeno una ricostruzione minuziosa dei fatti. La pellicola di Giordana vi pone di fronte alla Storia e vi dà tutti gli elementi per interpretarla. Non dà risposte, perchè non può darvele e non è giusto che le dìa, ma vi lascia liberi di farvi la vostra idea, liberi di rendervi conto o no, perlappunto, di essere liberi di pensare e di ragionare, e che tanta gente si è sacrificata, consapelvolmente o meno, per offrirvi questa libertà.

Cosa dirvi  invece sul film in sè? Che a Giordana va quantomeno riconosciuto il merito di aver sfruttato al meglio un cast di attori straordinari, il gotha del cinema italiano: a parte Servillo, ci sono praticamente tutti i nostri migliori interpreti: Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino sono encomiabili nei loro (difficili) ruoli da protagonista. Ma le vere 'chicche' della pellicola vanno ricercate nella miriade di piccoli 'camei' impersonati da attori bravissimi: Fabrizio Gifuni, Michela Cescon, Luigi Lo Cascio, Valerio Colangeli, Omero Antonutti, Giorgio Tirabassi, e perfino Francesco Salvi, offrono parti che strappano l'applauso. A testimonianza che è proprio vero il detto hollywoodiano 'non esistono piccoli ruoli, ma solo piccoli attori'. Romanzo di una strage ha anche il merito, banale ma per non per questo scontato, di aver riportato nelle sale il filone legato al cinema d'inchiesta, che in passato con Petri e Rosi aveva raggiunto livelli di assoluta eccellenza. E venerdì prossimo arriverà nei cinema Diaz, di Daniele Vicari, a testimonianza che (anche) da noi si può fare un cinema 'diverso'. Non è poco.

sabato 7 aprile 2012

QUESTIONE DI... TITOLI !

Si dice che François Truffaut l'abbia presa con filosofia quando seppe che il suo film Domicile conjugal sarebbe diventato nella nostra lingua Non drammatizziamo... è solo questione di corna: a tutt'oggi il caso più eclatante di 'scempio linguisitico' in sede di traduzione di titoli. Pare che il grande regista abbia risposto così a chi gli fece notare la cosa: 'sta incassando più in Italia che in Francia, quindi avete ragione voi...'. Una dichiarazione di gran classe per un titolo che ancora oggi grida vendetta, e che ripropone l'eterno dilemma delle traduzioni italiane di film esteri, mai risolto e praticamente irrisolvibile.

Intendiamoci: non intendo assolutamente fare facili polemiche e cavalcare la demagogia: mi rendo perfettamente conto che il titolo di un film è uno degli aspetti fondamentali per decretarne il successo (o l'insuccesso!) commerciale. Truffaut, infatti, aveva elegantemente centrato il nocciolo della questione: il titolo di un film è come la copertina di una rivista: il suo compito è quello di attrarre lo spettatore, ed è evidente che titoli in lingua straniera, specie se appena un po' più complessi del normale, non esercitino il dovuto 'richiamo'. E da qui, di conseguenza, la necessità di attribuire un titolo più comprensibile e 'ad effetto'. Niente di scandaloso, anche se bisogna dire che il pubblico di oggi non è più certo quello di 40-50 anni fa: se all'epoca tradurre i titoli era praticamente obbligatorio per ragioni di alfabetismo della popolazione (una buona percentuale non parlava correttamente nemmeno l'italiano, figuriamoci l'inglese o il francese), oggi questa esigenza è decisamente minore.

Se mi lasci ti cancello
Ma, ripeto, sorvoliamo su questo fatto. Il problema infatti è un altro: quando si decide di tradurre un titolo bisognerebbe, nei limiti del possibile, RISPETTARNE l'essenza e anche la grammatica. Vuol dire che un titolo tradotto dovrebbe essere il più vicino possibile all'originale, se proprio risultasse inevitabile la traduzione. Mi spiego con un esempio: mi sta bene che The eternal sunshine of the spottles mind debba essere tradotto in italiano per renderlo un minimo appetibile, ma chiamarlo Se mi lasci ti cancello è un titolo che grida ancora vendetta! Questo perchè un titolo del genere significa ingannare lo spettatore, un subdolo tentativo per far accorrere in sala il pubblico meno smaliziato e abituato a vedere commedie insipide e volgarotte, allontanando invece i cinefili più smaliziati.

Ancora più grave è il fatto di tradurre con banalità e (finta) sufficienza titoli che non ci sarebbe affatto bisogno di tradurre: vedasi il caso del post precedente, con il bellissimo The Guard diventato in italiano Un poliziotto da happy hour. E si potrebbe continuare per ore, con esempi su esempi:  come l'ultimo capolavoro di Aki Kaurismaki, che in tutto il pianeta si chiama semplicemente Le Havre mentre da noi gli hanno voluto aggiungere la parola 'miracolo', per scimmiottare pateticamente il Miracolo a Milano di De Sica. O come, andando indietrissimo nel tempo, il celebre Vertigo di Hitchcock, da noi diventato, chissà perchè, La donna che visse due volte...

Benigni e Allen sul set di 'To Rome with love'
Ma noi italiani, che non ci facciamo mancare nulla, siamo anche capaci dell'effetto contrario: proprio così! Titoli cioè che funzionerebbero benissimo nella nostra lingua, ma che preferiamo lasciarli in originale quando invece non ce ne sarebbe affatto bisogno: il prossimo film di Woody Allen, che uscirà a giorni, si chiamerà To Rome with love... che cosa impediva di chiamarlo 'A Roma con amore'? E perchè la saga di Guerre Stellari, una volta riunificata, adesso si chiama Star Wars? Mah...

L'attimo fuggente
Mestiere difficile quello del titolista. E problema tutto italiano o quasi, dal momento che siamo solo noi e pochi altri paesi a doppiare i film. Lo ripeto, ci vorrebbe nessuna 'guerra di religione' e tanto buonsenso, dote che (ahimè) manca a volte quasi del tutto ai nostri distributori. Certo, ci sono anche le eccezioni: titoli, cioè, più belli nella nostra lingua che in originale. Sembra impossibile, ma ci sono, anche se bisogna impegnarsi parecchio per trovarne... Però indubbiamente a un Dead Poets Society preferiamo il ben più affascinante L'attimo fuggente, così come al criptico Chariots of fire preferiamo il più altisonante e corretto (visto il film) Momenti di gloria.
Ma sono, appunto, eccezioni. Per il futuro vedete di impegnarvi di più!

UN POLIZIOTTO DA HAPPY HOUR

(The Guard)
di John Michael McDonagh (Irlanda, 2011)
con Brendan Gleeson, Don Cheadle
VOTO: ****

Càpita che entri svogliatamente in un videonoleggio alla ricerca di un filmetto per sopravvivere a una serata uggiosa e invece... succede che incontri per caso un tuo amico 'cinefilo', che non vedi da tempo, e che tra un discorso e l'altro ti dà una di quelle 'dritte' pur cui non puoi che promettergli eterna riconoscenza! E' solo grazie a lui infatti che la mia seratuccia (per non dire 'accia') è diventata (quasi) memorabile, perchè film come questo ti riconciliano con la Settima Arte e ti rinfrancano lo spirito: cosa c'è di meglio, infatti, in una giornata piovosa, umida e grigia, di una bella e sconosciuta pellicola irlandese? Insomma, come il cacio sui maccheroni, e non solo dal punto di vista climatico!

Ma andiamo con ordine. Lo so, sono prevenuto, ma ditemi onestamente: quanti tra voi lettori di questo blog (e quindi cinefili 'doc') avreste noleggiato a scatola chiusa un film intitolato Un poliziotto da happy hour? Questo la dice lunga sull'imbecillità e la doppiezza di certi titoli italiani e di certe locandine (ma ne parleremo nel post seguente), che cercano di spacciarti come una frivola storiella nostrana una folgorante e 'scorrettissima' commedia nera ambientata tra le brume del Connemara: siamo infatti a Galway, nell'Irlanda dell'Ovest, dove metà della popolazione parla solo in gaelico e dove la Guinness non è solo una birra ma uno stile di vita...

Qui vive (o sopravvive) e lavora (a modo suo) il sergente di polizia Gerry Boyle, un tipo che non vorresti mai incontrare per strada nè avere per amico: poliziotto faccendiere, ubriacone, puttaniere, cocainomane a tempo perso, oltre che burbero e razzista ('sono irlandese, il razzismo fa parte della mia cultura'). Un tipo per nulla raccomandabile, insomma. Da evitare come la peste. Salvo poi scoprire che anche i duri hanno un'anima, in quanto il 'nostro' omone si prodiga per allietare gli ultimi giorni della madre morente e si prende a cuore la vita di una giovane emigrante croata il cui maritino, nonchè collega di Gerry, è improvvisamente scomparso...

Aggiungete poi che sull'isola sta per sbarcare una nave carica di droga, che un trio di malviventi cazzuti (che citano Nietzsche e Bertrand Russell) la aspettano a gloria per spartirsi il bottino, che dagli Stati Uniti arriva un agente dell' FBI nero, elegante e ligio alle regole, che dovrà fare coppia con Boyle per catturare i banditi e... ecco che ci sono tutti gli ingredienti per una strepitosa black-comedy che mescola sapientemente umorismo e dramma, delicati momenti intimi e scene 'slapstick' che fanno innegabilmente il verso a Tarantino, eppure irlandesi fino al midollo. Il tutto sorretto da una sceneggiatura di ferro capace di regalarti battute memorabili e personaggi a tutto tondo. Onore al merito anche all'immenso (in tutti i sensi) Brendan Gleeson e all'eterna 'spalla' Don Cheadle, veri primattori di un film assolutamente da recuperare.