domenica 25 marzo 2012

THE RAVEN

(id.)
di James McTeague (USA, 2012)
con John Cusack, Luke Evans, Brendan Gleeson, Alice Eve
VOTO: **

Dici James McTeague e la memoria corre veloce a V per Vendetta, film divenuto col tempo autentico 'cult' e amato da legioni di cinefili. E allora, giocoforza, sulla fiducia, ti precipiti al cinema a vedere The Raven, opera successiva diretta dallo stesso regista, con la speranza che il miracolo si ripeta.

Purtroppo, lo diciamo subito, non è così. Anzi, per dirla tutta, The Raven è una delusione tremenda, un passo indietro clamoroso rispetto non solo al già citato V per Vendetta, ma anche a pellicole similari e meno ambiziose viste ultimamente sugli schermi (penso a Sherlock Holmes e Dorian Gray, tanto per fare degli esempi, prodotti dignitosi che univano decentemente azione, fantasy e finalità commerciali).

The Raven vorrebbe essere un thriller in costume, un giallo d'altri tempi, e se fosse stato solo un racconto di finzione sarebbe stato anche passabile... ma andare a scomodare uno come Edgar Allan Poe per propinarci la banalissima storia del solito killer seriale che ammazza le sue vittime ricostruendo omicidi 'famosi' è davvero irritante! Poe è da sempre uno degli scrittori più 'saccheggiati' dal cinema, molti dei suoi racconti sono così immediati che sembrano già delle sceneggiature per il grande schermo, e sarebbe bastato seguirne uno passo passo per farne un film dignitoso.

E invece McTeague ci mette del suo, immaginando nientemeno che di ricostruire gli ultimi giorni di vita del grande scrittore e romanziere americano,  e imbastendoci sopra un traballante canovaccio che mescola poco sapientemente ingredienti tutti già visti: dall'horror al soprannaturale, dal thriller al fantasy, dal film biografico al giocattolone spettacolare e fracassone. Il tentativo avrebbe anche potuto essere plausibile, ma sarebbe servito uno sforzo creativo e produttivo ben maggiore. The Raven invece proprio su questi due aspetti naufraga miseramente, perchè l'idea (anche interessante) di mostrarci un Poe diretto protagonista di uno dei suoi torbidi racconti svanisce subito in una sceneggiatura, come detto, scontata e banale, limitata al solo aspetto 'giallo' , e che tralascia completamente di caratterizzare la figura già per certi versi molto 'filmica' come quella  dello scrittore.

Oltretutto nemmeno la parte più strettamente spettacolare è particolarmente curata, indice probabilmente di un budget piuttosto limitato che ha impedito di ricreare in modo efficace la Baltimora di metà ottocento: la location prescelta infatti è stata Budapest, ma scenografie ed effetti speciali sono abbastanza dozzinali, per niente utili a ricreare quell'atmosfera di tensione e mistero che avrebbe giovato molto al fascino del film.

Cosa salvare allora di The Raven? Una discreta idea di base, il fatto che l'assassino non si capisce subito, la buona prestazione di un John Cusack abbastanza convincente. Sinceramente troppo poco.

sabato 24 marzo 2012

CESARE DEVE MORIRE

(id.)
di Paolo e Vittorio Taviani (Italia, 2012)
con attori non professionisti
VOTO: ****

Proviamo a farci una domanda e a rispondere onestamente: se non sapessimo che questo film NON è una vera fiction, e che gli attori sono invece detenuti VERI (sezione 'fine pena mai' del carcere di Rebibbia) sarebbe riuscito lo stesso a toccarci corde profonde del nostro animo?

La risposta, altrettanto onesta e ponderata, è sì, certo! Cesare deve morire è un film potente ed evocativo, coinvolgente, straordinariamente accurato dal punto di vista stilistico ed estetico. Il fatto che sia 'interpretato' da carcerati e girato integralmente dentro una prigione può senz'altro condizionarci emotivamente (e può farci vincere un Orso d'Oro dopo oltre vent'anni), ma nulla toglie al valore artistico di quest'opera, di assoluto rilievo.

La trama la conoscete tutti: un gruppo di detenuti rinchiusi in un carcere di massima sicurezza si appresta, volontariamente, a dare vita al Giulio Cesare di Shakespeare: ci rimetteranno tante ore d'aria e innumerevoli sguardi compassionevoli da parte della stessa polizia penitenziaria, ma alla fine su quel palcoscenico ci saliranno davvero. E tutto questo per merito di due 'toscanacci' burberi e poco socievoli che hanno trovato il coraggio (a 80 anni suonati...) di allontanare la loro dorata pensione e tornare dietro la macchina da presa. Con un grande e meritato successo (ovunque tranne che in Italia, però, dove il film è uscito in appena quaranta sale, e solo grazie alla benemerita Sacher di Nanni Moretti - vedi post sotto).

L'idea di alternare sequenze a colori (quelle relative alla rappresentazione) e in bianco e nero (quelle relative ai provini) è efficace e diretta, in quanto lo spettatore riesce subito a separare le parti 'pubbliche' dalle riflessioni intime dei detenuti, in un lavoro che sorprende per rigore e sobrietà: i Taviani infatti non speculano mai sulla particolarissima 'condizione' dei loro particolarissimi attori, ma si limitano a filmare il tutto con taglio documentaristico e  assolutamente non compassionevole, mettendo a risalto, ancora una volta, come sia 'l'arte' stessa a cambiare le persone e non viceversa.

Qui sta infatti la differenza tra questo film e altre pellicole similari per argomento: diversamente, ad esempio, dal Tutta colpa di Giuda di Davide Ferrario (dove era il testo letterario - in quel caso la Passione di Cristo - ad essere 'adattato' e rimodellato alle circostanze), in Cesare deve morire è l'opera stessa che viene rappresentata filologicamente sul palcoscenico, finendo per modificare le vite e le coscienze degli interpreti e finendo anche, questo sì, per toccare il cuore di noi spettatori nel vedere persone che, in alcuni casi, non vedranno mai la fine della loro prigionia, recitare un poema che parla di libertà. E non poteva esserci migliore conclusione della frase sussurrata da uno dei protagonisti, appena rientrato in cella dopo la rappresentazione: 'Da quando ho scoperto l'arte, questa cella è diventata una prigione'.

domenica 18 marzo 2012

QUESTIONE DI (IN)CULTURA


Quanto vale un Orso d'Oro in Italia? E quanto spazio c'è (se ancora c'è) per i film di qualità nel nostro paese? Sono domande forse retoriche, purtroppo ovvie nelle risposte, proprio perchè le risposte, da molti anni ormai, sono sempre le stesse. Insomma, come potete immaginare, c'è poco da stare allegri: è passato un mese esatto dal trionfo dei Taviani a Berlino con Cesare deve morire, acclamato a gran voce dalla trionfalistica stampa nostrana come 'l'ennesima rinascita del cinema d'autore italiano' (e la parola rinascita fa abbastanza ridere, specie se accostata a due registi entrambi ultra-ottantenni!). Nel frattempo il film è uscito nelle sale, è al secondo weekend di programmazione, e già possiamo tirare le somme...

Il risultato, tanto per cambiare, è sconfortante: Cesare deve morire è uscito in appena 40 (dicesi quaranta) sale su tutto il territorio nazionale: onore a Nanni Moretti e alla sua Sacher che hanno avuto almeno il 'coraggio' di distribuirlo, ma è evidente che si tratta di un numero di schermi assolutamente ridicolo se confrontato, ad esempio, con le quasi 500 sale 'occupate' da Posti in piedi in paradiso, con le 320 di un film oggettivamente orrendo come John Carter, e anche con le 450 del nuovo Ozpetek. Curiosamente, possiamo rilevare che le 40 sale di Cesare deve morire sono esattamente le stesse di un altro grande film italiano della scorsa stagione, Noi credevamo di Mario Martone, anch'esso incensato dalla critica e 'maltrattato' dalla distribuzione. Con l'aggravante, però, che il film dei Taviani poteva contare sul 'traino' della clamorosa vittoria alla Berlinale, la prima dopo oltre vent'anni.

Insomma, nemmeno la vittoria di un premio prestigioso serve a diffondere cultura nel nostro paese. Mi si dirà, immediatamente, che è scorretto paragonare film commerciali e di largo mercato come quelli appena citati con una pellicola 'di nicchia' come questa. Quasi fosse una giustificazione: i film 'da festival' non vanno distribuiti perchè non hanno pubblico, neanche avessero la rogna! Non vale nemmeno la pena provarci! Ma sarà poi vero che è così? E qui scopriamo una cosa interessante: che gli incassi di Cesare deve morire, se rapportati con l'esiguo numero di sale in cui il film è uscito, sono tutt'altro che disprezzabili: la media per schermo è piuttosto alta, e le varie cronache locali parlano di 
sale piene con spettatori entusiasti, con tanto di applauso finale (usanza rimasta solo o quasi esclusivamente nelle rassegne cinematografiche).

Questo vuol dire che non è affatto vero che la gente si rifiuta di vedere i film d'autore. Bisogna però dargliene la possibilità, investire sulla cultura, avere il coraggio di rischiare e credere nel valore artistico di un film indipendentemente dal risultato strettamente numerico. A maggior ragione se queste pellicole sono prodotte da Rai Cinema, vale a dire con denaro pubblico: la cultura è un investimento a lungo termine, faticoso, rischioso, ma che un vero servizio pubblico avrebbe il dovere di mettere in conto.

Del resto tutto ciò appare abbastanza assurdo se paragonato, ad esempio, con quello che succede in paese nostro 'vicino di casa': Paolo Mereghetti su Ciak ha citato il caso 'eclatante' del film iraniano Una separazione, vincitore dell'Oscar come miglior film straniero e acclamato in tutti i festival del mondo: ebbene, in Francia questo film ha sbancato i botteghini, incassando quasi un milione di euro  
e triplicando dopo un mese di programmazione il numero di schermi in cui veniva proiettato. Sapete quanto ha incassato da noi lo stesso film? La miseria di 80.000 euro! Dodici volte meno in un paese che ha all'incirca la stessa popolazione!

Non solo. Si potrà dire che la crisi economica, le famiglie senza soldi, i conti da far quadrare a fine mese non invogliano ad andare al cinema... e infatti in questi primi tre mesi si è avuto un calo degli incassi rispetto al 2012 di oltre il 25%. Bene. Ma lo sapete che in Francia (dove certo anche lì le famiglie borghesi non navigano nell'oro) in questo stesso periodo gli incassi sono addirittura raddoppiati? Questo perchè i cugini d'Oltralpe hanno un'attenzione e un rispetto per la cultura che noi ci sognamo. Lì il cinema viene insegnato nelle scuole, il governo locale (di destra, non scordiamocelo) non ha mai diminuito i fondi statali per il cinema, nemmeno negli anni più difficili, e adesso questi sforzi vengono ripagati. Cosa che non sarà mai possibile in un paese miope e invecchiato (male) come il nostro.  

POSTI IN PIEDI IN PARADISO

(id.)
di Carlo Verdone (Italia, 2012)
con Carlo Verdone, Piefrancesco Favino, Marco Giallini, Micaela Ramazzotti
VOTO: **

Carlo Verdone è un comico, per chi se lo fosse dimenticato. Un ottimo comico, almeno a giudizio di chi scrive, con una capacità innata di far ridere anche solo con la sua faccia. E quando un comico si mette a fare cinema, quello che banalmente ci si aspetta da lui è che faccia commedie, che diverta lo spettatore. Verdone sono trent'anni che dirige commedie: molte gli sono venute bene, alcune benissimo, altre un po' meno bene... ed è umano, legittimo e comprensibile che dopo trent'anni abbia voglia mettersi a girare 'qualcos'altro'. Doveroso, direi.

Però ci vuole chiarezza. E soprattutto coraggio. Due cose che mancano completamente in Posti in piedi in Paradiso, e che finiscono per classificarlo come una delle opere più deludenti del regista romano. Verdone infatti vola alto, propinandoci un'interessante storia di padri separati, ciascuno respinto dalle proprie famiglie e costretti a fare i conti con la loro nuova realtà. Già con il precedente (e molto più riuscito) Io, loro e Lara aveva cercato di 'attualizzare' la propria pruduzione rivolgendo uno sguardo più diretto e (lo diciamo?) neo-realista sulla società attuale. Posti in piedi in Paradiso avrebbe dovuto essere l'evoluzione di questo nuovo corso, la conferma di un 'cambio di rotta' verso un modo di fare cinema meno disincantato e più attento al presente.

E invece, ecco il perchè della delusione, ci troviamo di fronte a un prodotto 'ibrido', nè carne nè pesce, che non si capisce mai dove voglia davvero andare a parare. Posti in piedi in Paradiso non è una commedia, perchè non fa ridere quasi mai (salvo alcune scenette che ricordano molto gli sketch del Verdone degli esordi), ma non è nemmeno un film drammatico perchè tutte le situazioni 'difficili' si fermano in superficie, e i temi delicati (separazione, difficoltà economiche, disagio sociale, vergogna, rapporto padre/figlio...), che comunque ci sono, vengono appena sfiorati, quasi pudicamente sottaciuti, in nome di un nazional-popolarismo di maniera dettato (ahimè) dalla paura di perdere fette di pubblico e conseguenti lauti incassi.

L'ultimo Verdone è una pellicola bislacca e piuttosto scontata, che frulla (male) molti elementi senza approfondirne nemmeno uno, e vanifica le prestazioni di due attori come Pierfrancesco Favino e Marco Giallini, che in altre circostanze e in altri ruoli non sarebbero certo da buttare (rivedeteli entrambi in ACAB, tanto per fare un esempio). Meglio tacere invece, per l'ennesima volta, sull'imbarazzante presenza di una Micaela Ramazzotti onestamente tanto improponibile da dare ragione alle malelingue che si sprecano sul suo status di 'moglie di...'  Ma non andiamo oltre.

Posti in piedi in Paradiso è un film irrisolto come il suo finale, ipocritamente 'sospeso', stretto tra la 'solita' colonna sonora banamente rock (una scusa, l'ennesima, per sviscerare le passioni del suo autore) e un accumulo eccessivo di argomenti e situazioni che non riescono mai ad intercettare lo spettatore, rendendolo un faticoso e malriuscito esame di maturità.
Da rinviare a settembre.

sabato 10 marzo 2012

FINE DI UNA STORIA

Confesso che mi sono sentito a disagio: la celebre scritta gialla cancellata malamente con pennellate di vernice scura, le vetrine oscurate da enormi manifesti reclamizzanti merce in svendita, gli scaffali desolatamente vuoti, centinaia di dvd dai prezzi stracciati accatastati alla rinfusa in enormi contenitori di plastica, un'aria pesante di smobilitazione forzata.

Lo sapete, Blockbuster chiude e liquida tutto: dopo quasi vent'anni di attività la celebre catena americana di videonoleggio getta la spugna, sopraffatta dai debiti. Io, come tanti altri clienti, sono andato nel negozio più vicino a fare incetta di film scontatissimi: con trenta euro ho acquistato una dozzina di titoli sempre desiderati, e mi hanno dato pure il resto... Dovrei essere contento, e invece sono uscito con l'amaro in bocca, sentendomi quasi uno 'sciacallo': perchè è davvero triste vedere quei dipendenti, che non prendono lo stipendio da due mesi e saranno messi tutti in mobilità (780 in tutt'Italia), fare buon viso a cattivo gioco e cercare di svolgere il loro lavoro normalmente, come se niente fosse.

Blockbuster chiude perchè è finita un'epoca: quella del noleggio. Oggi i film si scaricano da internet oppure si guardano in streaming sul pc, completamente gratis e senza problemi. ILLEGALMENTE, questo bisogna dirlo. Ormai lo fanno tutti, ed è inutile cercare di evocare gli spettri del proibizionismo.

Però una riflessione seria sulla pirateria audiovisiva credo che prima o poi bisognerà farla... intendiamoci, non voglio ergermi a paladino dell'onestà o fustigatore del peer-to-peer (chi è senza peccato scagli la prima pietra), però da stasera in poi, innegabilmente, ogni volta che aprirò emule mi ricorderò la faccia di quel commesso con la divisa blu che, sforzandosi di restare calmo, rispondeva ad un acquirente molto ciarliero: 'siamo aperti finchè abbiamo merce da vendere, poi tutti a casa'.

HYSTERIA

(id)
di Tanya Wexler (Gran Bretagna, 2011)
con Rupert Everett, Hugh Dancy, Maggie Gyllenhaal, Jonathan Pryce, Felicity Jones
VOTO: ***

Niente sesso, siamo inglesi. Nella puritanissima Londra vittoriana di fine '800 le donne sessualmente represse fanno la fila davanti allo studio medico del Dr. Dalrymple (Jonathan Pryce), specializzato nel curare l' 'isteria femminile' con un metodo poco 'scientifico' ma dall'indubbia efficacia: praticare un abile 'massaggio manuale' sotto le gonne delle nervosissime pazienti... ma quando dopo mesi di 'intensa attività' anche le mani dello pseudo-luminare perdono il loro 'tocco magico', ecco che al suo brillante assistente Mortimer Granville (Hugh Dancy) viene un'idea geniale: rivolgersi al suo eccentrico amico Lord Edmund (Rupert Everett), per proporgli un uso decisamente molto, molto 'alternativo' della sua ultima invenzione, lo 'spolverino elettrico'...

Se un film come Hysteria fosse stato concepito in Italia, nella migliore delle ipotesi avremmo assistito ad una versione soft-revisionista delle leggendarie pellicole del genere 'pecoreccio' stile anni '70 (quelle con Alvaro Vitali ed Edvige Fenech, tanto per capirci). Per fortuna però l'idea di un simile soggetto è venuta oltremanica alla regista Tanya Wexler (che, pensate un po', è - veramente! - laureata in 'psicologia del sesso' ) la quale ne ha tirato fuori un filmetto tipicamente british, con tutti i pregi e i difetti del caso, ma comunque decisamente godibile.

Intendiamoci: Hysteria è una pellicola leggera e senza pretese, chi ha voluto a tutti i costi vederci uno 'spaccato sella condizione femminile del XIX secolo' secondo me esagera un po'... però è senza dubbio un film brillante, ben sceneggiato, assolutamente non volgare e  curatissimo nei particolari (in particolar modo costumi e scenografie). Anche gli interpreti funzionano bene: bravini i protagonisti, ottimi i comprimari: a partire da Rupert Everett che ripropone lo stereotipo dell'aristocratico ricco, fascinoso e disincantato (che tanto bene gli riesce) fino alla brava Maggie Gyllenhaal nel ruolo della 'femminista' figlia del Dr. Dalrymple.

Il resto è tutto nella norma, ma l'ora e mezza di pellicola scorre tutto sommato molto bene: si ride, ci si diverte e se ne esce... rilassati. Senza la minima 'isteria' !