domenica 27 novembre 2011

MIRACOLO A LE HAVRE (Finlandia, 2011) di Aki Kaurismaki

Per una volta, forse involontariamente, i titolisti italiani hanno fatto centro: l'ultimo film di Aki Kaurismaki si chiama in tutto il mondo semplicemente Le Havre. Da noi invece è stata aggiunta la parola 'miracolo', e mai come in questo caso non poteva essere più appropriata... a dire la verità il paragone con De Sica c'entra poco: qui il vero miracolo è il film stesso, un gioiellino di inestimabile bellezza, tenerissimo, disarmante nella sua semplicità e nella capacità di arrivare immediatamente al cuore di noi spettatori, nel più classico stile del regista scandinavo.

Kaurismaki stavolta va in trasferta: abbandona la sua amata Finlandia per trasferirsi momentaneamente a Le Havre, cittadina francese nota al mondo solo per il suo porto e per il fatto di essere il principale snodo marittimo verso le coste britanniche. Qui vive placidamente Marcel Marx (interpretato da un superlativo Andrè Wilms): ex scrittore, ex bohemièn, ex alcolista, ora ridottosi a praticare con garbo e dignità il mestiere di lustrascarpe. La sua esistenza, da tempo immutabile, viene improvvisamente sconvolta da due eventi imprevedibili: la grave malattia della moglie (apparentemente incurabile) e l'incontro con un piccolo clandestino, Idrissa, che Marcel prenderà con sè e cercherà in tutti i modi, anche sfidando le assurde leggi anti-immigrazione, di aiutarlo a raggiungere Londra per ricongiungersi con la mamma.

Miracolo a Le Havre è una storia senza tempo, fuori dal mondo, universale, che come dice lo stesso Kaurismaki 'potrebbe svolgersi ovunque': solo lo stile del grande regista è inconfondibile, fatto al solito  di comicità surreale, personaggi silenziosi e stralunati, fotografia amabilmente 'd'epoca', infiniti rimandi cinefili e, soprattutto, del consueto registro leggero e sensibile, capace di far commuovere semplicemente con poche inquadrature, in dettagli apparentemente insignificanti (ad esempio l'albero in fiore, simboleggiare il ritorno alla vita...)

E' una bellissima favola questo film, capace di passare in pochi momenti dalla commedia al dramma, dal   divertimento alla rabbia, alla preoccupazione. Il tono è lieve, ma si toccano temi importanti come l'immigrazione, l'umanità, la solidarietà, la malattia, il viaggio... E l'inevitabile lieto fine non può certo farci dimenticare il mondo in cui viviamo, con le sue assurde logiche e le leggi ingiuste.
Miracolo a Le Havre esce nelle sale questo weekend, ma noi ci auguriamo che possa rimanerci a lungo. Magari per tutte le feste. E sarebbe bello se quegli spettatori che vanno al cinema una volta l'anno scegliessero questo come loro 'film di Natale'. Sarebbe, anzi, assolutamente perfetto.

VOTO: *****

ANONYMOUS (Germania, 2011) di Roland Emmerich

Metti che un vecchio amico ti invita una sera al cinema, una scusa per rivedersi. Metti che, a conti fatti, quella sera non hai davvero niente di meglio da fare. Metti che una volta tanto sei anche disposto ad assistere a una caz**** per trascorrere una serata in compagnia... persino a un film di Roland Emmerich!

Insomma, non si può certo dire che da Anonymous mi aspettassi chissà che cosa. Ero anzi piuttosto rassegnato e preparato al peggio: d'altronde è piuttosto facile essere prevenuti nei confronti del 'creatore' di Independence Day e Godzilla... Sarà per questo, allora, che tutto sommato il film non mi è nemmeno dispiaciuto. Certo, prendere sul serio dal punto di vista storico e letterario questo spettacolare polpettone in costume è oggettivamente impossibile, però va detto che il risultato finale non è poi così terribile: se facciamo finta di non sapere chi è stato Shakespeare e immaginiamo di assistere a una costosa fiction in salsa cinquecentesca, bisogna riconoscere che la pellicola nonostante la lunghezza (due ore e venti) regge bene il ritmo e mantiene sufficientemente alta la tensione. Di più non era lecito chiedere.

Anonymous deve il suo interesse principalmente allo spunto che è alla base del film: la teoria, intrigante ma mai provata, che William Shakespeare non fosse affatto l'autore dei suoi grandi capolavori, ma solo un misero prestanome alle dipendenze del Conte di Oxford, tale Edward De Vere, vero artefice di tutte le opere e impossibilitato ad apparire per ragioni di decoro (ai tempi il teatro era considerato un'attività disdicevole per un nobile), e tuttavia ben deciso a vederle rappresentate in scena. Insomma, il Bardo visto come il più grande impostore della storia: roba da far tremare i polsi!

Naturalmente il film di Emmerich non aggiunge alcun elemento utile a suffragare questa fantasiosa ipotesi, così come è chiaro sin dal primo momento che al regista interessa ben altro che un'accurata ricostruzione storica su un qualcosa che è poco più di 'leggenda metropolitana': la pellicola è un buon thriller storico, pieno di colpi di scena, intrighi di palazzo, molta azione e, ovviamente (come poteva mancare?) anche un bel po' di sesso. Un qualcosa a metà strada tra Il Codice Da Vinci e i racconti di Valerio Massimo Manfredi, tanto per capirci. Ma fortunatamente molto meno pretenzioso!

 D'altronde non è nemmeno la prima volta che il grande drammaturgo inglese è oggetto di rivisitazioni storiche afferenti la sua produzione letteraria: già nel 1998 l'americano John Madden aveva diretto il suo Shakespeare in Love, delicata, patinatissima e accurata commedia in costume, in cui si cercava di far credere al pubblico che il 'motore' della produzione shakespeariana fosse l'amore dello scrittore verso una bella fanciulla: la 'fantomatica' Viola De Lesseps. Teoria anche questa mai dimostrata, ma che valse ben sette Oscar alla pellicola in questione.

Anonymous invece vola più basso, ma il risultato come detto è godibile. Merito anche dei due interpreti principali, i navigati Rhys Ifans e Vanessa Redgrave, che danno all'opera quel valore aggiunto tale da renderla accettabile anche agli occhi dello spettatore più esigente. E che confermano, se mai ce ne fosse bisogno, che il cinema è fatto di uomini più che di effetti speciali...

VOTO: ***

martedì 22 novembre 2011

amori cinefili / CAREY MULLIGAN

Durante le riprese di Non lasciarmi veniva scambiata (come lei stessa ammette, divertita) per 'l'assistente di scena di Keira Knightley'. E certo non si può dire che Carey Mulligan sia una tipa che buca lo schermo: biondina minuta, trucco acqua e sapone, carattere non certo esuberante... insomma, una che se la incontri per strada difficilmente ti giri a guardarla. Eppure questa giovanissima inglesina (è nata a Londra nel 1985) sul grande schermo ci sa fare eccome: e se scorrete la sua filmografia vi accorgerete che è stata eccellente interprete di pellicole tutt'altro che commerciali e decisamente non facili.

Ma andiamo con ordine: Carey Mulligan debutta artisticamente nel 2005 in Orgoglio e pregiudizio di Joe Wright, non disdegnando (senza puzza sotto il naso) diverse apparizioni in serial televisivi britannici. Nel frattempo studia recitazione sperando nella 'chiamata della vita' da parte della grande Hollywood. Chiamata che arriva (quasi) puntualmente quattro anni dopo, nientemeno che da un 'gigante' come  Michael Mann che la scrittura per il suo Nemico Pubblico. E' l'occasione che potrebbe valere una carriera, eppure accade quello che non ti aspetti: la ragazza appare disorientata nella 'mecca del cinema', e decide coraggiosamente di ripiegare sui circuiti alternativi delle produzioni indipendenti: ed ecco che arrivano allora i ruoli in Brothers di Jim Sheridan e nel già citato Non Lasciarmi di Mark Romanek.

A volte il coraggio paga. La Mulligan è brava, molto brava, e diventa subito una piccola 'icona' del cinema indipendente. Ma per trovare la parte più bella (finora) della carriera deve rientrare in patria e affidarsi a una regista danese, Lone Scherfig, che la scrittura per il suo An education, costruendole un ruolo che sembra scritto apposta per lei: quello di una giovane studentessa di provincia che si invaghisce, ricambiata, di un fascinoso 'dandy' della Londra-bene che la fa crescere... molto in fretta, mettendo in subbuglio la benpensante società britannica degli anni '60. E' il ruolo che le vale svariati premi in patria e fuori, coronati dalla prestigiosa nomination all'oscar.

Logico che lasciare fuori Hollywood dalla propria vita adesso è parecchio più difficile. Però la Mulligan resta con la testa ben salda sulle spalle, selezionando copioni adatti alle sue corde e senza svendersi allo star-system. Arrivano così film come il cupo (ma affascinante) Drive di Winding Refn e, soprattutto, Wall Street-Il denaro non dorme mai di Oliver Stone. Il film in realtà fa schifo, ma sul set nasce la dirompente passione con il protagonista Shia LaBeouf: la storia d'amore durerà poco ma, sempre con parole sue, 'varrà molto la pena di essere vissuta'.

Oggi Carey Mulligan è considerata una delle dieci migliori attrici under-30 del mondo. Il suo nome è sinonimo di professionalità, bravura, fascino e competenza. E' inutile dire che ne sentiremo parlare ancora tanto, tantissimo. A cominciare proprio dal suo prossimo film, che viene già annunciato come l'evento assoluto della prossima stagione cinematografica: interpreterà infatti Daisy Fay nel remake de Il Grande Gatsby, diretto da Baz Luhrmann e con a fianco uno come Leonardo Di Caprio... volete vedere che dopo nessuno la scambierà per un'assistente?

domenica 20 novembre 2011

SCIALLA! (Italia, 2011) di Francesco Bruni

Diciamolo subito: Scialla! non è affatto un brutto film, tuttaltro. E' l'opera prima di un noto sceneggiatore che, come tanti suoi colleghi, decide di fare il grande salto dietro la macchina da presa. E Francesco Bruni è stato parecchio furbo, o se volete più accorto di tanti altri: anzichè, infatti, tentare di realizzare subito il 'film della vita', ha preferito giocare sul sicuro con una commedia di stampo molto (troppo) classico, che ha immediatamente fatto gridare al 'miracolo' buona parte della critica italiana, finendo addirittura per essere premiato alla Mostra di Venezia nella sezione 'Controcampo Italiano'.

Ecco, Scialla! è il tipico esempio della pochezza di idee e della mancanza di coraggio del cineasta italiano 'medio'. Ci dispiace dirlo ma è così: tolti i soliti Sorrentino, Garrone, Giordana, Martone e pochi, pochissimi altri, il 'mare magnum' del 'ggiovane' cinema italiano sta tutto in questa commediola ben fatta, ben scritta (e vorrei vedere!), ben recitata, 'carina' quanto vuoi ma emozionante quanto una tazza di camomilla. Scialla! è il classico prodotto di consumo per gli spettatori senza pretese e col palato buono (purtroppo la maggioranza nelle nostre sale, e Bruni è stato scaltro anche in questo), che diverte, fa sorridere, ma che una volta usciti dalla sala evapora come neve al sole, non ti resta veramente niente che valga la pena di essere ricordato.

l'esordiente Filippo Scicchitano
La trama è abusatissima: un giovane studentello problematico, coatto, inconcludente ma brillante, viene parcheggiato in casa del solito professore disilluso ma 'alternativo' , che è anche (ma guarda un pò!) il padre segreto del ragazzo. Ovviamente la convivenza all'inizio andrà di pari passo con i risultati scolastici (chiaramente disastrosi) ma poi, come in ogni commedia che si rispetti, i due riusciranno a capirsi e a recuperare il rapporto. E tutti vivranno felici e contenti...

Stop. Scialla! è tutto qui. Inutile aspettarsi altro, qualsiasi barlume di originalità. Certo, si fanno apprezzare le prove di Fabrizio Bentivoglio (il professore sciroccato venuto dal nord), Barbora Bobulova (la pornostar cresciuta che cerca di 'ripulirsi' la fedina morale) e soprattutto del quindicenne Filippo Scicchitano (lo studente) al suo debutto cinematografico. Bravissimo. Bruni dirige con mano sicura, il film fila via tranquillamente, si fa persino qualche risata.  Ma, aldilà di questo, tutto il resto è veramente noia.

VOTO: **

domenica 13 novembre 2011

ONE DAY (GB, 2011) di Lone Scherfig


Può un'amicizia trasformarsi in amore? O addirittura coesistere? E qual è il confine? Possono due persone incontrarsi, conoscersi, lasciarsi, riprendersi, amarsi senza saperlo (o fingendo di non saperlo) per quasi vent'anni, fino a scoprire di non poter stare l'una lontano dall'altra? E' quello che accade a due ragazzi scozzesi, Emma e Dexter, che si conoscono per caso il giorno della loro laurea (il 15 luglio 1988) e le cui vite s'intrecceranno, guardacaso, per quasi due decadi, finchè un avvenimento 'definitivo' (non vi diciamo quale) porrà fine a ogni domanda...

One Day è tratto da un fortunato bestseller di David Nicholls (qui nelle vesti di sceneggiatore), che non ho letto ma che pare sia diventato un piccolo 'cult' della letteratura post-adolescenziale. Il film, non originalissimo per tematiche, si basa su un assunto alquanto particolare: raccontare per un giorno all'anno di ogni anno (il 15 luglio, appunto) i destini incrociati dei due giovani protagonisti. In realtà le vicende di Emma e Dexter si sviluppano per tempi ben più lunghi, ma a noi ci viene fatto vedere solo quello che accade in un solo giorno. Quel giorno.

Jim Sturgess
Il film vorrebbe essere una tenera riflessione sul destino, sull'imprevedibilità della vita, sull'impossibilità di governare la passione. La regista Lone Scherfig (quella di An Education) riesce discretamente a tenere a bada la componente 'romantica' del film, senza eccedere nella mielosità, ma la struttura estremamente rigida della storia costringe la sceneggiatura a sorvolare su troppe 'pagine' (cioè anni) per rientrare nei tempi 'filmici' a disposizione. Alcune annate durano lo spazio di pochi secondi (a volte una sola nuotata in piscina, mentre immaginiamo che nel libro ogni capitolo sarà stato senz'altro più approfondito) finendo così per togliere molto fascino alla storia e rendendola abbastanza prevedibile.

Anne Hathaway
Anche non avendo letto il libro, infatti, lo spettatore capisce sempre prima quello che succederà di lì a poco, finendo inevitabilmente per togliere suspance e curiosità alla pellicola. In pratica non ci si emoziona mai, eccezion fatta per gli ultimi dieci minuti dove il tocco leggero, delicato e tipicamente femminile della regista porta inevitabilmente alla commozione, pur senza 'ricattare' chi guarda. Salvo però ricredersi appena dopo, a causa di un doppio finale appiccicaticcio e consolatorio, assolutamente non necessario. Discrete le interpretazioni dei due attori (Anne Hathaway e Jim Sturgess), anche se non invecchiano praticamente mai per vent'anni (nemmeno una ruga...).

Tuttavia, la visione di One Day non può non riportarci alla mente un bel film italiano di qualche anno fa: si tratta di  Un amore di Gianluca Maria Tavarelli, pellicola datata 1999 e passata come una meteora nelle sale italiane nonchè in home video. La trama è incredibilmente simile, ma la costruzione e l'impatto emotivo sono decisamente superiori al film della Scherfig. Può essere un'occasione per riscoprirlo. Non ve ne pentirete.

VOTO: **

sabato 12 novembre 2011

'FAUST' E' GRANDE. MA LO SPETTATORE E' DIVENTATO PICCOLO.

La locandina 'internazionale' del film...
Ci sono dei film verso i quali ti senti clamorosamente inadeguato. I tre lettori di questo blog si saranno accorti da tempo che non ho recensito il vincitore del Leone d'Oro di Venezia, ovvero il Faust di Sokurov. Il motivo è semplice: non me la sono sentita, perchè di fronte a un'opera così complessa e grandiosa mi sono dovuto arrendere alla mia impreparazione... Chiamatela pure ignoranza, se volete: non ho mai letto il testo letterario, e certamente vedere un film come questo senza avere basi culturali adeguate è tremendamente difficile. Insomma, non ci ho capito molto e non mi vergogno a dirlo.

Tuttavia, credo che chiunque 'mastichi' un po' di cinema, chiunque abbia un minimo di passione e dedizione verso la settima arte, non possa non riconoscere a Faust la magniloquenza e il rispetto che si merita. Sono dati oggettivi, non sensazioni. Faust è un film monumentale, epico, visivamente grandioso, certo non facilmente digeribile, tuttavia di una bellezza incontestabile.

Quando però leggo articoli di giornale come QUESTO, non posso non prendere atto (per l'ennesima volta, purtroppo) della spaventosa regressione culturale dello spettatore italiano medio. Nell'articolo di Elisa Battistini (ottima giornalista, peraltro) si parla di 'tasso di noia' legato a produzioni come queste, dando per scontato che un film come Faust risulti 'soporifero' a priori, a prescindere dalla 'confezione'. Si parla di 'grande sonno che avanza', di spettatori che dormono in sala o la abbandonano prima, addirittura come di un rimedio consigliato per l'insonnia!

Ecco, io a questa visione delle cose non ci sto. Non so se Faust sia un capolavoro, ma ritengo di poter dire che sia un film bellissimo, faticoso, difficile, ma certamente non noioso. Io l'ho visto a Venezia, alle due del pomeriggio (quindi a stomaco pieno), in lingua originale (in tedesco!) con sottotitoli, eppure non mi sono addormentato, anzi! Maledivo, semmai, la mia assoluta ignoranza verso il testo di Goethe, che mi impediva di apprezzarlo e capirlo appieno,  ma ero tremendamente affascinato da quello che passava sullo schermo, non fosse altro perchè stavo assistendo a un film incredibilmente 'diverso' da tutti gli altri: proiettato in un anacronistico formato 4:3, con 'quadri' , luci e scenografie tendenti  al verde, stile inizio secolo (ricorda molto Il gabinetto del dottor Caligari),  una fotografia 'sporca', un'atmosfera mortifera, putrida, agghiacciante, che ti mette scientificamente a disagio per tutta la durata del film ma che... di sicuro non ti fa dormire!!

...e quella della versione 'italiana'
Non è colpa di Faust se la gente dorme in sala. E' colpa di chi va a vedere Faust senza un minimo di preparazione, senza documentarsi, senza avere idea di quello a cui sta per assistere: una partita di calcio può essere emozionante fino all'infarto, ma se chi la guarda non sa nulla di calcio si addormenterà esattamente come vedendo Faust. Lo spettatore medio non fa alcuno sforzo, perchè non ne ha proprio voglia e non gli interessa, e magari va a vedere un film di Sokurov solo perchè non ha trovato posto nella sala accanto, dove proiettano film infinitamente più noiosi come Il cuore grande delle ragazze di Pupi Avati (che da dieci anni fa sempre lo stesso film), o come il TinTin di un inaridito Spielberg, che prende per i fondelli la gente fingendo di essere ancora 'ingenuo' e 'smaliziato' come ad inizio carriera... e c'è chi casca ancora!

Non si può accusare Faust di essere noioso, se 'noioso' per la gente significa un qualsiasi film che si eleva appena appena dalla melassa commerciale del prodotto da multisala. Così come non si può accusare di 'snobismo' coloro che (giustamente!) dicono che Faust non è un film 'per tutti'. Non lo è perchè richiede, semplicemente, un minimo sforzo in più allo spettatore. Sforzo che l'italiano medio si rifiuta di fare, perchè ormai 'anestetizzato' a tutto (non solo al cinema...). Perfino la locandina italiana di Faust è stata 'aggiustata', nel patetico tentativo di spacciare il film come un 'melò' stile 'Elisa di Rivombrosa' e renderlo più 'commerciale' possibile. Parafrasando Norma Desmond, Sokurov è sempre grande. E' lo spettatore che è diventato piccolo.

domenica 6 novembre 2011

MELANCHOLIA (Danimarca, 2011) di Lars Von Trier

Scene da un matrimonio. Il giorno più felice della vita, per antonomasia. Eppure per Justine è il punto di non ritorno, il giorno in cui irrimediabilmente si rompe il legame con la normalità e si finisce nel baratro della depressione. In cielo brilla una stella luminosa: è Antares, dicono gli intenditori, ma non è vero: la verità arriverà a breve. Si tratta di un pianeta immenso, bellissimo, dal nome suadente 'Melancholia', che si dirige verso di noi e di lì a poco sistemerà ogni cosa... Nel frattempo Justine si riduce a un'ameba, si sistema a casa della sorella Claire, e aspetta. Aspetta la fine.

Chi scrive non ha mai sopportato Lars Von Trier, lo dico a scanso di equivoci. Ho sempre disprezzato il vuoto formalismo delle sue opere, l'inutile spettacolarizzazione del dolore, le provocazioni assurde e fini a se stesse, l'odiosa misoginia che traspare compiaciuta in tutti i suoi film. Eppure... eppure questa volta non è così, o almeno non sono queste le caratteristiche che ti colpiscono. Melancholia è un film sorprendentemente misurato, austero, rigorosissimo, perfino struggente nella sua profonda (e solita) desolazione. E' un film che parla ancora una volta del male di vivere, dell'ineluttabilità del destino, dell'insensatezza dello stare al mondo. Però stavolta non ci sono eccessi, tutto è sotto le righe. Melancholia ti colpisce davvero al cuore, a poco a poco, esattamente come la stella che si avvicina sempre più verso la Terra. E' il primo film davvero sincero del regista danese, intellettualmente onesto, finalmente non ricattatorio.

Le protagoniste sono due donne (straordinarie le interpreti, Kirsten Dunst e Charlotte Gainsbourg, bisogna dirlo. Come bisogna riconoscere a Von Trier - e questo l'ho sempre fatto - la grande abilità nel dirigere le sue attrici). Justine e Claire sono sorelle, ma non ci vuole molto a capire che in realtà sono la stessa persona: Claire, la maggiore, è semplicemente l'immagine invecchiata di Justine: la ribelle, la pazza, l'indomita, quella che non si rassegna al futuro dimesso e soffocante che ha davanti. Justine è quella 'che sa le cose', e sa che nessuno la può salvare, perchè al mondo siamo soli, disperatamente soli, e a nessuno è data la possibilità di cambiare... Tutto è falso, ovattato, desolatamente perfetto, come il rituale delle nozze, raggelante nella sua assurda ritualità.


Melancholia è un maestoso requiem. Senza speranza nè barlume di salvezza. Ma è anche, per la prima volta (ci tengo a ri-sottolinearlo) un film finalmente 'umano', dove c'è dolore VERO ma anche un sentimento sincero e pulsante, come quello tra le due sorelle. Finalmente c'è traccia d'amore, di accoglienza, di solidarietà. E' un'opera durissima, di sicuro non da vedere a cuor leggero.
Ma stavolta è proprio il cuore ad aprirsi, cosa che con Von Trier non (mi) era mai successa.

VOTO: ****

venerdì 4 novembre 2011

PIAZZA GARIBALDI (Italia, 2011) di Davide Ferrario

'Gli Italiani non hanno mai fatto una vera rivoluzione, perchè sono fratricidi e non parricidi. Il nostro è l'unico popolo che fonda il suo mito su un fratello che ammazza un altro fratello (Romolo e Remo, ndr) e per un paese che fa della famiglia un culto è una bella contraddizione'. 

Basterebbe solo questo incipit per correre nelle sale italiane (pochissime, purtroppo) a vedere Piazza Garibaldi, ultimo film di Davide Ferrario, accolto da un quarto d'ora di applausi scroscianti alla recente Mostra del Cinema di Venezia. Un documentario folgorante, emozionante, di straordinaria intensità, che sfrutta la struttura 'on the road' usata per il precedente La strada di Levi (dello stesso regista, che raccontava il ritorno da Auschwitz) per ripercorrere ai giorni nostri le tappe della spedizione dei Mille.

Piazza Garibaldi è un toponimo che troviamo ovunque, immancabile: non esiste infatti una sola città italiana che non abbia una piazza o una strada intitolata all' 'eroe dei due mondi'. Ma che cosa resta oggi di quell'impresa? In che stato si trova la memoria storica del nostro paese? E soprattutto, il nostro popolo può dirsi davvero 'unito' a centocinquantanni di distanza? Davide Ferrario gira una pellicola basata proprio sull'identità della nostra gente, in maniera onesta, senza pregiudizi politici o concetti precostituiti. A parlare è proprio la gente, senza filtri e senza commenti da parte della troupe,  che esprime liberamente il proprio pensiero.

Il regista Davide Ferrario
Il film è strutturato proprio come un road-movie, ricalcando esattamente le tappe della spedizione. Si parte così da Bergamo, città che fornì a Garibaldi ben 180 uomini e dove furono 'tinte' di rosso le divise. La cinepresa entra nel liceo dove studiavano quei ragazzi, oggi popolato da giovanotti in abiti firmati e con Ipod al seguito, in una città che è diventata un 'feudo' della Lega Nord... si prosegue poi per Quarto, dove si 'salpa' per raggiungere la Sicilia e quindi Bronte, dove un sindaco di una certa parte politica (che vi lascio immaginare) ha 'rimodellato' a suo modo la storia dell'eccidio. Ed eccoci ora in Basilicata, dove ogni anno gli abitanti di un piccolo paese mettono in scena una rappresentazione del brigantaggio (con i 'banditi' che fanno la parte degli eroi), fino ad arrivare ovviamente a Teano, per intervistare alcuni 'neoborbonici' (ebbene sì, esistono!) che puntano il dito contro lo 'sciacallaggio' del Nord che ha privato il meridione di milioni di posti di lavoro (emblematiche, in questo caso, le riprese fatte a Castel Volturno, sede della 'rivolta' degli immigrati del 2009).

Piazza Garibaldi è un film 'obbligatorio' per chi vuole davvero capire qualcosa dello strano paese in cui viviamo. Un Paese mai effettivamente nato e sempre pieno di perenni contraddizioni, dove la memoria storica è ormai confinata nelle biblioteche e nei ricordi degli anziani. E' un film che vuole dirci come abbiamo perso la nostra identità (ammesso che l'abbiamo mai avuta) e cosa dobbiamo fare per garantirci un futuro. Per questo imperdibile.

VOTO: *****