mercoledì 25 maggio 2011

THE TREE OF LIFE

(id.)
di Terrence Malick (USA, 2011)
con Brad Pitt, Jessica Chastain, Sean Penn, Laramie Eppler
VOTO: ***/5

Qualche recensore lo ha definito 'incommentabile', molti altri illustri 'luminari' si sono arresi nel cercarne il significato. The Tree of Life ha annichilito la critica cinematografica, ma ha conquistato immediatamente la giuria (e la platea) del Festival di Cannes. C'è poco da dire: i film di Malick non sono film 'per tutti'. Ne ero convinto prima e ne sono ancora più convinto adesso: questo non significa essere snob o sentirsi spocchiosamente superiore a coloro i quali il film non è piaciuto, anzi. Li capisco benissimo, e comprendo le loro ragioni. Il cinema è questione di sensibilità, e vedere un film di Malick mette a dura prova la tua resistenza, ti costringe a calarti in una dimensione filmica a cui non sei nè abituato nè preparato. Ma se hai la forza e la pazienza di restare incollato alla poltrona fino alla fine, non puoi non ammettere di aver avuto la fortuna di aver assistito a qualcosa di unico, irripetibile.

Sì, perchè proprio l'unicità è la caratteristica basilare del cinema di Malick. Le sue opere sono inclassificabili, non omologate nè omologabili, nè paragonabili a nessun altra cinematografia esistente. Lontane anni luce dalla produzione hollywoodiana, ma altrettanto distanti dalla produzione indipendente. Sono opere intime eppure magniloquenti,  che non seguono alcun schema logico e ricorrono a tutte le potenzialità espressive permesse dalla settima arte, ben orchestrate da un regista 'di culto' che ormai, proprio in nome di questa sua esclusività può permettersi di tutto, anche di non apparire pubblicamente e non rilasciare interviste da decenni, per la 'gioia' degli addetti al marketing...

Ma veniamo a The tree of life, quinto film in quarant'anni di carriera, e senz'altro il più ambizioso (o pretenzioso, a seconda che lo si ami o meno). Come detto, è uno dei lungometraggi più indefinibili, misteriosi e criptici degli ultimi... decenni. Due ore e mezza di durata per quaranta minuti scarsi di dialoghi, intervallati da autentici deliri visivi, psichedelici, con un montaggio da capogiro: vediamo, in continuazione, scene di tranquilla vita domestica alternate a immagini dell'universo, inquadrature naturalistiche interrotte da mirabolanti effetti speciali, momenti e 'movimenti' di gente comune subito 'azzerati' da sequenze da 'Natural Geographic' che coinvolgono anche... la preistoria (ci sono perfino i dinosauri!) e la conseguente nascita della vita sulla Terra.

La trama (se di trama si può parlare) si riassume in tre righe: siamo nel Texas, anni '50, in una piccola cittadina di provincia vive una tipica famiglia piccolo-borghese, formata da una madre amorevole e comprensiva, un padre severo e autoritario e i loro tre figli, uno dei quali perde la vita all'età di 19 anni (non sappiamo come e perchè). Dopo tanti anni, il maggiore dei tre, ormai affermato manager, rivive i ricordi d'infanzia e sogna di incontrare di nuovo quel padre con cui ha avuto un rapporto conflittuale...
Solo una cosa è chiara: Malick paragona la vita dell'essere umano a quella dell'universo. La nascita (e la morte) di un figlio alle origini e alla fine del mondo. Come dire che l'universo è formato da tante piccole particelle insignificanti che, messe insieme, costituiscono la Natura e il motivo dell'esistenza. E forse insinua un dubbio: c'è davvero qualcosa dopo la morte? L'uomo è in grado di gestirsi da solo, oppure tocca alla Natura stessa regolare la vita?

Tutto il resto è insito nelle strabilianti alchimie visive che a molti hanno fatto scomodare Kubrick e 2001: odissea nello spazio, e d'altronde il fatto che la supervisione degli effetti speciali sia stata affidata al 'mitico' Douglas Trumbull (lo stesso, appunto, di '2001') non è certo passato inosservato. Le somiglianze ci sono: la maternità come 'l'alba dell'uomo', la Natura matrigna come il monolite nero che assumeva le sembianze di un'entità superiore e aliena, il 'passaggio' del feto dal ventre materno alla luce visto quasi come il 'trip allucinogeno' che conduceva Bowman dall'astronave a un'altra dimensione spazio-temporale.
Ma forse sono solo coincidenze o giochetti cinefili. E si potrebbe durare all'infinito: al sottoscritto, per esempio, la scena finale, dove vivi e morti si ritrovano in una spiaggia grigia e affollata ha ricordato non poco il finale (altrettanto visionario) di Underground, il capolavoro di Emir Kusturica. E si potrebbe andare avanti ancora...

Quello che è certo è che The tree of life è una grandiosa esperienza visiva, di formidabile impatto sullo spettatore. E forse solo (o soprattutto) un enorme esercizio di stile.
Ma clamorosamente affascinante.

martedì 24 maggio 2011

NATURALMENTE, MALICK


Ha vinto proprio lui: mai nella storia del Festival di Cannes c'era stato un vincitore così annunciato. Terrence Malick era il grande favorito e si è portato a casa la Palma d'Oro senza colpo ferire. Giusto? Sbagliato? Un fatto è certo: The tree of life è un film unico nel suo genere (il 'genere Malick'), non omologabile, non categorizzabile. Visivamente grandioso, dall'interpretazione misteriosa, certo deve molto del suo clamore anche alla figura per certi versi 'mitica' del suo autore, personaggio sfuggente, inafferrabile, inavvicinabile, autentico 'guru' della settima arte. Di The tree of life parleremo più diffusamente a breve, ma certo il carattere di 'unicità' della pellicola, unito alla sua magniloquenza, ha pesato non poco sul palmares. Insomma, il film di Malick era l'unico vero 'evento' del Festival e ha avuto gioco facile nel far breccia nella giuria. E va bene così.

Del resto ha ragione Bob De Niro, le sue parole sono state semplici e lapalissiane: 'non si poteva premiare tutti'. E quest'anno a Cannes c'erano davvero tutti: un' edizione-monstre con Kaurismaki, Almodòvar, Dardenne, Ceylan, Von Trier, Miike, Mihaileanu... una tale abbondanza non si era mai vista, e questo fa capire ancora di più come mai si è voluta premiare la 'diversità' di Malick: era, semplicemente, il film che ha messo tutti d'accordo. Punto.

Ottime scelte anche gli altri premi, a testimonianza di una qualità elevatissima delle opere in gara: fa immensamente piacere la vittoria di Kirsten Dunst tra le attrici, nonostante i deliri nazisti di Von Trier. Onore al merito alla giuria, che ha voluto premiare una brillante interpretazione non facendosi condizionare dalla 'scomunica' (giustissima) comminata al regista danese. Bello anche il premio per la regia a un altro danese, Winding Refn,  che ha convinto tutti col suo Drive. Meno a sorpresa invece i premi ai fratelli Dardenne (ormai 'abbonati' alle vittorie, quest'anno è toccato loro il Grand Prix) e al turco Ceylan.
Grossa sorpresa invece la Palma d'oro per il miglior attore al francese Jean Dujardin, per il film The Artist di Michel Hazanavicius: pellicola muta, originalissima e nostalgica insieme, tenera e toccante.
Tutte scelte, come si vede, molto 'cinefile' e non scontate:  quello che si vorrebbe sempre da un festival.

E siamo alle dolenti note. Vale a dire ai film italiani in gara. Diciamoci la verità, tutti noi ci siamo rimasti parecchio male: eravamo sbarcati sulla Croisette con due 'pezzi da novanta', e siamo tornati con le pive nel sacco. Pazienza. Ce ne faremo una ragione, ma senza piangere: i film di Moretti e Sorrentino sono belli e importanti, e hanno ottenuto l'apprezzamento di pubblico e critica. Senza contare (cosa forse più importante) che sono stati venduti in tutto il mondo, con grandissimo successo. Abbiamo assistito a tante edizioni di Cannes e Venezia con palmares altrettanto desolatamente vuoto, ma stavolta usciamo con la consapevolezza di avere, in ogni caso, un cinema italiano importante e vitale. E non è poco.
Appuntamento al prossimo anno.

domenica 22 maggio 2011

MR. BEAVER (USA, 2011) di Jodie Foster

Quante volte nella vita ci capita di dover indossare una maschera? Quante volte ci sforziamo di apparire diversi, magari migliori di quello che pensiamo di essere? A tutti è capitato, almeno una volta, di sentirsi deboli, insicuri, inadeguati per un ruolo, una persona o una compagnia. Per molti è una situazione eccezionale, circoscritta a cause ed eventi particolari. Per altri può essere sintomo di un malessere passeggero, dovuto a periodi poco felici o a profondi cambiamenti della propria vita.

Ci sono però persone alle quali questo disagio non passa, anzi si intensifica man mano che passa il tempo. Persone per le quali la propria vita perde di significato, tanto da sentirsi vuote, inutili, terribilmente sole. E allora il malessere diventa cronico, togliendo all'individuo ogni speranza di combattere e reagire. In questi casi non si parla più di malessere ma di depressione: una malattia subdola e tremenda, sempre più diffusa nella società moderna, che crea dipendenza esattamente come la droga: in questo caso un abisso emotivo fatto di negatività nel quale si affonda sempre di più e non si riesce a risalire.


Walter Black (Mel Gibson) è un uomo depresso. Non sappiamo il perchè, e del resto non ha importanza perchè la depressione può colpire tutti e per cause imperscrutabili. L'ultimo film di Jodie Foster inizia così, con lei stessa nei panni di una donna in carriera costretta, per il proprio bene e per quello dei figli, a cacciare di casa il marito ridotto a uno stato vegetale. L'uomo vaga per la città, si ubriaca, tenta di uccidersi. Ma al momento di compiere l'estremo gesto viene 'salvato' da un 'amico' insospettatato, che gli si presenta sotto forma di un castoro di peluche attraverso il quale Walter si trasforma e si lega indissolubilmente, come un suo 'doppio', ridandogli una speranza.  A questo punto, lo sviluppo di un qualsiasi altro film hollywoodiano prevederebbe la 'rinascita' del personaggio, la sua ascesa sociale dopo la discesa agli inferi, la rivincita personale e il successo dopo aver toccato il fondo. E almeno all'inizio sarà cosi, ma solo per poco.

Il pupazzo rappresenta, evidentemente, lo 'schermo' protettivo di Walter. E' la sua controfigura, quella che gli serve per apparire una persona nuova, migliore, nei confronti degli altri e anche di se stesso. Ma nella vita 'barare' serve a poco: l'uomo diventa via via 'schiavo' del pupazzo, dal quale non riesce più a staccarsi per la paura di mostrarsi per quello che è davvero, e non riuscendo più a contenere il disagio oppressivo e latente che ha sempre covato dentro di sè. La situazione precipita, fino a diventare sempre più drammatica, con conseguenze estreme e incontrollabili.

Il terzo film di Jodie Foster, a sedici anni di distanza dal bellissimo A casa per le vacanze, è una pellicola forte, grottesca e problematica come il suo protagonista. Con toni da commedia, a volte anche molto divertente, ma     che lasciano presagire a ogni fotogramma il precipitare di una situazione drammatica e estrema, Mr. Beaver è ancora una volta un trattato sulla famiglia e sul complesso microcosmo di cui è composta, temi da sempre cari alla regista. Un film coraggioso, che indaga senza indulgenza su un argomento scomodo e ostile come il male di vivere e la difficoltà dello stare al mondo, e che certo non invoglia alla visione lo 'spettatore medio' in cerca di storielle edificanti (non a caso gli incassi americani sono stati disastrosi). Bellissime le prove degli attori principali, con la Foster pronta con umiltà a fare da spalla ad uno splendido Mel Gibson, in un ruolo per il quale non è stato scelto certamente a caso... ed evitiamo in questa sede inutili riferimenti alla sua vita privata. Il film certo non è perfetto, ma l'onestà morale e le forti (e genuine) emozioni che suscita fanno passare in secondo piano difetti evidenti, come la vicenda parallela e posticcia del figlio maggiore, avulsa dalla trama, e un finale forse troppo accomodante rispetto a quanto visto prima.

Ma non è compito del cinema dare risposte alle persone. Mr. Beaver disturba, commuove e fa riflettere. A noi va benissimo così.

VOTO: * * * *

mercoledì 18 maggio 2011

A PROPOSITO DI FILM 'COMMERCIALI'...

Molti di voi mi hanno scritto, qui o su facebook, chiedendomi il perchè non recensisco mai film 'commerciali', quelli che 'andiamo a vedere un po' tutti', come mi scrive una mia fedelissima lettrice...
Beh, la risposta può essere semplice o complessa a seconda dei casi. Ma mi sento comunque in dovere di darvela, se avete la pazienza di seguirmi.

Innanzitutto bisogna chiarire una cosa, che poi è l'aspetto fondamentale di questa discussione: che cosa s'intende per 'cinema commerciale'? Quello che incassa di più? Quello più 'nazional-popolare'? Quello più banale, di grana grossa, fatto apposta per attirare al cinema masse di spettatori non disposti a mettere in funzione il cervello durante il film? O, più semplicemente, un cinema fatto per arrivare meglio alla gente, pur senza scendere nella volgarità o nella semplificazione? Io credo a quest'ultima ipotesi, e il discorso è interessante perchè da noi spesso 'commerciale' fa rima con 'volgare', ed è soggetto a critiche e reprimende da parte di chi si ritiene un 'cinefilo-doc', che rifiuta a priori certe (presunte) porcherie.

Beh, io credo che il discorso sia un po' più complesso. Nel senso che non necessariamente un film commerciale deve essere per forza brutto. Anzi. Prendiamo, ad esempio, l'ultimo film di Duncan Jones, Source Code. Nessuno può negare che sia un film 'commerciale': è costato diversi milioni di dollari, ha un cast di attori importanti, è un film d'azione (genere 'commerciale' per eccellenza) e di sicuro è molto, molto diverso dal precedente Moon, pellicola filosofica, riflessiva e cerebrale. Però Source Code è un gran bel film, e chissenefrega se è fatto per vaste platee... è bello e basta! Ricordo ancora una famosa intervista a Peter Weir che, un po' stizzito per le critiche rivolte a Master and Commander, rispose ai giornalisti: "Voi mi dovete spiegare come mai quando faccio Picnic a Hanging Rock per voi sono un Autore e quando faccio film come questo no... eppure io sono sempre lo stesso e lavoro sempre al solito modo, aldilà del budget che ho a disposizione!" Come dargli torto?

Insomma, per me i film si dividono semplicemente in belli e brutti. Indipendentemente da quanto sono costati e da quanti soldi incasseranno. E un bel film commerciale lo recensirò sempre, come ho fatto per Source Code.
Mentre invece non recensirò mai film come Pirati dei Caraibi, Fast & Furious, Red, Thor o Beastly... perchè? Semplice, perchè non ho alcuna intenzione di andarli a vedere! E chiaramente non posso recensire un film che non ho visto. Ma, badate bene, non lo faccio per snobismo o per andare controcorrente. Lo faccio perchè film del genere non suscitano più alcun interesse su di me. Sono film 'standardizzati', magari anche fatti bene, ma dove lo spettatore che va a vederli sa esattamente quello che trova. 
Questo, per carità, non è necessariamente un male... ma uno come me, che in quasi quarant'anni di vita ha visto centinaia di film, ormai è difficile che trovi lo stimolo per vedere pellicole che sono fatte con lo stampino, assolutamente stereotipate, e dove puoi stupirti (se va bene) solo con qualche mirabolante effetto speciale.


'Quelli come me', che amano il Cinema come 'opera d'ingegno' e non come 'prodotto industriale', vogliono cercare di stupirsi con le idee, e non con i trucchetti visivi. Vogliono vedere un film per cercare di apprendere qualcosa di nuovo, per creare spunti di discussione, per emozionarsi, ridere o incazzarsi, purchè in presenza di un'idea vera, e non di una sceneggiatura precotta. Per questo non troverete su queste pagine recensioni di pellicole come quelle che ho appena citato. Tanto quelle potete trovarle da qualunque altra parte, e saranno tutte uguali, proprio come i film. 
Però troverete presto (spero!) commenti su L'albero della vita, su Mr. Beaver, su Corpo celeste, ecc... film magari non perfetti, magari anche sbagliati (speriamo di no!), ma senz'altro in grado di mettere in moto il cervello!  Piaciuta la risposta?

domenica 15 maggio 2011

amori cinefili / KIRSTEN DUNST


A vederla sembra la classica ragazza della porta accanto: biondina, eterea, sguardo innocente, corpo asciutto, minuto... insomma, non è una di quelle che ti fanno girare la testa la prima volta che le vedi. Eppure Kirsten Dunst non è certo una qualunque, e per ora ci limitiamo alla carriera artistica: dopo un'infanzia trascorsa a girare spot pubblicitari (anch'essa molto comune a Hollywood), Neil Jordan la scrittura per la parte di Claudia in Intervista col Vampiro: Kirsten è appena dodicenne, e quel piccolo ruolo le cambierà la vita. E non stiamo parlando di un ruolo 'facile': Claudia la vediamo prima piangere davanti al cadavere della madre, poi 'morsa' dal vampiro fino a diventare una vampira lei stessa, e cavarsela anche molto bene! Ma tanto sangue non le darà alla testa... da quel momento infatti i copioni si sprecano: eccola in Piccole donne (1994), Jumanji (1995), e perfino al fianco di due 'mostri sacri' come Robert De Niro e Dustin Hoffman in Sesso e Potere (1997).

Ma la 'vera' svolta artistica, l'incontro più fortunato della sua carriera, la ormai diciassettenne Kirsten lo trova con Sofia Coppola, che nel 1999 la sceglie come protagonista per il suo film d'esordio, Il giardino delle vergini suicide: e la figlia d'arte più talentuosa del mondo del cinema  viene ripagata magistralmente da questa biondina minorenne, apparentemente ingenua e delicata ma con un 'lato oscuro' sorprendentemente torbido e molto, molto cinefilo: la sua interpretazione di Lux Lisbon, la più grande delle cinque sorelle del romanzo omonimo di Jeffrey Eugenides, è esemplare per dedizione e resa artistica. Lo sguardo malizioso ma dolente, le movenze infantili, civettuole ma incredibilmente sensuali, il carattere intraprendente, 'ribelle', indomito, che lascia presagire il tragico epilogo della storia, fanno della Dunst prima che una brava attrice, un'icona delle adolescenti americane, e non solo: è difficile non immamorarsi 'platonicamente' di questa ragazzina molto più adulta della sua età.

E sarà ancora Sofia Coppola a sceglierla come sua 'attrice-feticcia' (termine bruttissimo, ma è così), offrendole sette anni dopo il ruolo più importante della sua già vasta filmografia: quello di regina di Francia in Marie-Antoinette, film 'meravigliosamente' bello, nel senso letterale del termine: un lungo videoclip dallo sguardo pop, con colori a pastello, trine e merletti, fatto di straordinari slanci rock e pervaso da una tristezza infinita e sotto pelle: quella di una sovrana che, apparentemente, può avere qualsiasi cosa dalla vita ma che è 'prigioniera' nel suo castello dorato, ignara di quello che succede oltre le mura, promessa sposa ad un marito inetto e impotente, e alla quale la Storia arriverà ben presto a chiederle il conto. Una storia, l'ennesima, di solitudine, carenza di rapporti umani e affettivi, malinconia e tenerezza, tutte caratteristiche che rispecchiano in pieno l'indole di Kirsten, ormai a suo agio nei panni della ninfetta 'bella e dannata' di Hollywood.

In mezzo a questi due film, un altro 'gioiellino' indipendente come Se mi lasci ti cancello, di Michael Gondry, e soprattutto molte opere ben più commerciali con le quali può 'monetizzare' la notorietà acquisita: primi fra tutti, ovviamente, i tre episodi di Spider-Man, nei quali interpreta Mary-Jane Watson, 'pupa' del supereroe più timido di tutti i fumetti Marvel. E, come spesso accade in questi casi, 'galeotto' fu il set: eccola infatti prendersi una cotta per Tobey Maguire, il suo contraltare maschile...

Ed ecco così svelarsi il 'tallone d'achille' di Kirsten Dunst: la sua 'turbolenta' vita privata, che le darà ben poche gioie e molti dolori: anticonformista per natura, malgrado l'ormai noto aspetto 'angelico', passa da una relazione all'altra senza trovare alcuna stabilità e tranquillità interiore: lasciatasi ben presto con Maguire, le attribuiscono svariati flirt, tra i quali quelli con Orlando Bloom e Ben Foster, poi intraprende una lunga relazione con Jake Gyllenhaal, che finirà malamente e la farà cadere nel tunnel della depressione e della droga. Le sue continue entrate e uscite dalle cliniche 'rehab' ormai non fanno più notizia, screditandola notevolmente agli occhi dell'opinione pubblica anche grazie a certe sue dichiarazioni non proprio... politically correct: famose le frasi in cui 'inneggia' al consumo di Marijuana, unite alle candide ammissioni di farne un largo uso personale. Parole che, nell'America bacchettona e protezionista di questi anni, certo non aiutano la sua carriera...

Ma il talento c'è ancora, eccome. E allora ecco che un regista 'maledetto' e 'di culto' (nel bene e nel male) come Lars Von Trier le offre una straordinaria occasione nel suo ultimo film, Melancholia:, dove vediamo Kirsten di nuovo splendida, 'torbida', sinuosa e... molto, molto poco vestita, nel pieno rispetto della filmografia 'estrema' del cineasta danese.
Ma per una come lei... praticamente roba da ragazzi !!

venerdì 13 maggio 2011

CANNES 64: LA 'TERRA DELL' ABBONDANZA'


Cannes caput mundi. Eh sì, quest'anno i francesi hanno fatto davvero le cose in grande... dopo un paio di edizioni (o forse più) decisamente sottotono, il 'cast' della 64. edizione è qualcosa di simile a un cielo stellato: provate a dire un nome qualsiasi di un Autore con la 'A' maiuscola e vedrete che ci sarà. Perchè quest'anno sulla Croisette ci saranno davvero tutti: mai visto un 'menu' più appetitoso di quello che il Festival sta per proporci.
E sarà davvero dura per il presidente di giuria Robert DeNiro e i suoi illustri colleghi proclamare la pellicola meritevole della Palma d'Oro: ovviamente stiamo parlando 'a scatola chiusa', senza averne viste nessuna, e altrettanto ovviamente ci saranno solenni delusioni ma anche belle sorprese. Fattostà che tra i venti film in concorso c'è davvero l'imbarazzo della scelta in fatto di gusti e passioni personali.

Venti titoli, venti storie diverse, e un favorito d'obbligo. Pronostici pressochè unanimi, infatti, per Terrence Malick e il suo Tree of life. La ricetta è esplosiva: metti un 'guru' del cinema moderno, inavvicinabile e non inquadrabile artisticamente (cinque film in quasi cinquant'anni di carriera), un'accoppiata di interpreti di 'mostruosa' bravura (Brad Pitt Sean Penn), una trama avvolta nel mistero più fitto. Malick non si smentisce mai e l'attesa è davvero spasmodica... tutti lo aspettano al varco.
'Tree of life' di Terrence Malick
Ma Cannes 64 sarà anche il festival di autori conclamati: applaudiamo fin d'ora il ritorno del grande Aki Kaurismaki, in gara con Le Havre (commedia a sfondo sociale e piena di umanità). Salutiamo con altrettanta enfasi anche i nuovi lavori di Pedro Almodovar (Le piel que habito, con cui il cineasta iberico torna a misurarsi con l'estremo e il surreale) e Radu Mihaileanu (La source des femmes), così come aspettiamo con ansia di vedere il turco Nuri Ceylan, il cui film è tutto un programma già dal titolo:Once upon a time in Anatolia.
Ci saranno poi gli habituè del Festival, come i fratelli belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne, già vincitori due volte della Palma: quest'anno ci riprovano con Il ragazzo con la bicicletta, in cui schierano per la prima volta un'attrice affermata, la bellissima Cecile de France. E vedremo se ci proporranno qualcosa di diverso dai 'soliti' film disperati e sterotipati cui ci hanno abituato... altro assiduo frequentatore della Croisette è Lars Von Trier, forse il più abile venditore di fumo che il cinema ricordi, col quale il sottoscritto ha da tempo troncato ogni rapporto... ma questa è un'altra storia. Fattostà che il suo Melancholia (scommettiamo?) sarà ancora una volta l'ennesimo FINTO film-scandalo della competizione. Scandalo assicurato invece con la debuttante Julia Leigh, 'protetta' di Jane Campion (qui in veste di produttrice) e in gara con Sleeping Beauty, storia di una candida studentessa universitaria che, per guadagnarsi da vivere, si concede ogni notte a uomini anziani e facoltosi per poi 'dimenticare' tutto il mattino successivo... detta così sembra la trama di un porno, vedremo. Sesso a go-go anche in L'Apollonide del francese Bertrand Bonello: film d' 'interni' ambientato nelle case chiuse del secolo scorso. Tra le prostitute-interpreti anche la nostra Jasmine Trinca.
Kirsten Dunst in 'Melancholia'
Ma ci saranno anche e soprattutto gli italiani. Con due 'pezzi da novanta' e molto, molto agguerriti! Nanni Moretti schiera subito il suo Habemus Papam, forse il suo miglior film dai tempi di Caro Diario, e di gran lunga il più bel film italiano dell'anno. Il regista romano è amatissimo in Francia, già vincitore tempo fa con La stanza del figlio e sempre apprezzatissimo dalle giurie. Un pensierino alla Palma è lecito farlo, Malick permettendo. E Michel Piccoli si candida fin da ora al premio per il miglior attore: il suo papa dubbioso, timido, scostante e molto 'umano' pare fatto apposta per far breccia nel cuore degli spettatori.
Non si sa molto invece di This Must Be the Place, ma a dirigerlo è Paolo Sorrentino, e questo ci basta: le poche immagini che abbiamo visto, con uno Sean Penn truccatissimo e irriconoscibile nei panni di una rockstar in declino che va a trovare il padre morente, ci hanno già messo addosso una tale voglia di vederlo... e pensare che da noi arriverà solo a ottobre! Ma varrà la pena aspettare, ne sono convinto.
Sean Penn in 'This must be the place'
Ma Cannes non è solo concorso. Da sempre anche nelle sezioni collaterali si possono ammirare titoli interessanti e importanti. Non rientra secondo me in questa categoria lo stanco divertissement di Woody Allen, ormai abbonato ai filmini romantici e noiosamente civettuoli come Midnight in Paris. Ma da gente come Spike Jonze, Jeff Nichols, Kim-Ki-Duk, Gus Van Sant, Michael Radford e Andrej Zvyagintsev (ricordate lo splendido Il ritorno, vincitore a Venezia?) è lecito aspettarsi qualcosa di buono. E sono curioso anche di vedere cosa porterà sullo schermo una come Jodie Foster, al suo ritorno alla regia dopo sedici anni. Il film si chiamaThe Beaver e promette di essere una storia inquietante e disturbante sul tema della depressione, con il discusso (e discutibile) Mel Gibson come protagonista.

Insomma... ce n'è per tutti i gusti. Buon Festival a tutti !
CANNES 64: LA 'TERRA DELL' ABBONDANZA'

sabato 7 maggio 2011

NELLA NOTTE DEI DAVID TRIONFA MARTONE


Valerio Binasco, Mario Martone, Luigi LoCascio
Come da noi già ampiamente previsto (vedi il post del 9 aprile scorso), Mario Martone ha fatto il pieno di riconoscimenti alla 56.ma edizione dei David di Donatello: il suo film Noi Credevamo, splendido affresco sul Risorgimento italiano, si è aggiudicato ben 7 statuette tra cui la più ambita, quella per il miglior film. Non poteva andare diversamente e siamo molto contenti che sia andata così: e speriamo che questo riconoscimento faccia da viatico ad un doveroso rilancio di questa pellicola così poco vista e, invece, così 'necessaria' per capire tante cose sul nostro Belpaese, specie nella stagione del suo 150. compleanno. Non vogliamo rinvigorire vecchie polemiche, note e poco edificanti: la speranza è che, semplicemente, questo film abbia una volte per tutte la distribuzione e l'attenzione che merita. Ricordiamo che è già uscito in dvd (pur in un'edizione decisamente 'scarna', che fa presagire per il futuro un cofanetto deluxe... speriamo) e che tutti i cinefili 'veri' hanno la possibilità di vederlo. Tutto qui.

Elio Germano
Per quanto riguarda gli altri premi, scontata la vittoria di Elio Germano tra gli attori: la sua interpretazione ne La nostra vita di Luchetti è notevole e, data l'assenza (clamorosa, direi!) di Toni Servillo tra i candidati, onestamente non aveva rivali. Più a sorpresa invece la statuetta alla Paola Cortellesi di Nessuno mi può giudicare... che dire, non ci convincono troppo nè lei nè il film (avremmo preferito di gran lunga la Alba Rohrwacher de La solitudine dei numeri primi), ma ne prendiamo atto. Meritatissimi invece i premi ai non protagonisti: il grande (in tutti i sensi) Giuseppe Battiston (La Passione) e la stupenda (in tutti i sensi) Valentina Lodovini, unico riconoscimento importante vinto dalla divertente commediola nazional-popolare Benvenuti al Sud. Giurie molto generose anche verso 20 sigarette dell'esordiente Aureliano Amadei (quattro premi, tra i quali quello dei ragazzi: un po' troppi a nostro avviso...) e verso il bellissimo, divertentissimo e strampalato musical Basilicata coast to coast firmato da Rocco Papaleo, che vince anche il premio come miglior regista esordiente, davvero meritato. Vittorie, infine, per Hereafter di Eastwood tra il film stranieri e de Il discorso del re come miglior film europeo.

Valentina Lodovini
Una discreta annata, quindi, per il nostro cinema: trionfale dal punto di vista degli incassi (mai si erano viste quattro pellicole ai primi quattro posti della stagione, per un totale ad oggi di 110 milioni di euro, cifre da capogiro!), un po' meno da quello della qualità: il successo infatti arride solo alle commedie, anche abbastanza sempliciotte, come quelle di Checco Zalone. Il cinema di qualità fa ancora fatica a penetrare tra i gusti della gente, anche perchè nessuno fa nulla per instillare il desiderio... ma qui si ritorna a polemizzare, e per questa volta ci fermiamo qui!

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venerdì 6 maggio 2011

NORWEGIAN WOOD (Giappone, 2010) di Tran Anh Hung

I libri non cambiano le persone, e nemmeno i film: magari potessero farlo. Però ci sono libri che ti regalano delle autentiche lezioni di vita, che segnano indissolubilmente la tua esistenza e che ti porti dietro per sempre, perchè sono parte di te e non puoi più farne a meno. Ecco, per quanto mi riguarda, Norwegian Wood è il mio 'libro dell'anima', dolorosissimo e straordinario, dolce e tragico insieme, regalatomi da una persona particolare in un momento particolare della mia vita. Logico, dunque, che ho desiderato ardentemente di vederne la trasposizione cinematografica, passata fugacemente e quasi inosservata all'ultima Mostra del Cinema di Venezia.

Una cosa è certa: non fa mai bene vedere i film dopo aver letto i libri da cui sono tratti, specie se ti hanno suscitato le passioni di cui ho parlato sopra. E' molto meglio fare il contrario, perchè in questo modo eviti di restare 'interdetto' di fronte agli attori in carne e ossa e anche a certe situazioni sceniche che, inevitabilmente, possono essere ben diverse da come te le eri immaginate. Ma questo è il prezzo da pagare ogni volta che ci accingiamo a vedere una pellicola di questo tipo, e dobbiamo comunque rispettare la creatività del regista che non rinuncia, giustamente, a metterci dentro qualcosa di suo.
In ogni caso il film diretto dal vietnamita Tran Ahn Hung è molto fedele al romanzo di Murakami Haruki: scelta intelligente e giusta, non c'era davvero motivo di stravolgere una storia semplice, assoluta e lineare, che era già lì e funzionava egregiamente. Certo la versione cinematografica è decisamente semplificata rispetto al romanzo, e molte sequenze non vengono spiegate o commentate (e questo non è necessariamente un male) finendo forse per risutare poco comprensibili a chi si avvicina per la prima volta alla storia. Ma devo dire che nel complesso le emozioni, il dolore, la mia empatia e il mio coinvolgimento personale sono rimasti intatti.

Norwegian Wood parla di tante cose: di relazioni difficili, di equilibri delicati, di amori totalizzanti anche se fisicamente appena accennati, di persone che affrontano la vita e di altre che scelgono di smettere di vivere, lasciando a chi rimane il peso delle domande e delle responsabilità. Parla di vita e di morte, di come queste non siano mai in antitesi ma indiscutibilmente l'una parte dell'altra.
Parla, soprattutto, dei dubbi e delle paure di una generazione che fa sempre più fatica a capirsi e comunicare con gli altri, e che cerca disperatamente di sfuggire alla solitudine.

Watanabe, il protagonista, è un ragazzo che deve dividere i suoi sentimenti con due donne, che ama in egual misura ma diversissime tra loro: una, Naoko, è timida, fragile, complicata, spaventata dal mondo e dalla propria personalità. Rappresenta l'insicurezza e la sensibilità di tante persone che si sentono 'diverse' solo perchè respinte da una società dominata dalla superficialità dei rapporti umani.
L'altra, Midori, è invece l'esatto opposto: è, apparentemente, vulcanica, aperta, esuberante, solare. Salvo poi scoprire che l'aspetto esteriore è in realtà una 'maschera' protettiva, per nascondere un passato fatto di ferite profonde e mai rimarginate.
Logico che il ragazzo, stretto tra due persone che sono complementari tra loro, si troverà continuamente assalito dai dubbi e dalle responsabilità. A salvarlo sarà il suo grande senso morale, che lo spinge a rigettare tutto ciò che è falso e finto, e che gli darà la forza di guardare avanti.
Ma Norwegian Wood è anche un romanzo sull'importanza e sul valore dei ricordi che, dice Murakami, sono tutt'altro che incancellabili. Il libro inizia con Watanabe ormai adulto che, durante un viaggio aereo, ascolta in sottofondo la canzone del titolo e viene inevitabilmente colto da un groppo alla gola... non tanto per la nostalgia, ma perchè si accorge che il viso di Naoko ha contorni sempre più indefiniti, e ogni giorno che passa lo sforzo per ricordarlo è sempre maggiore. Il tempo lenisce qualsiasi cosa, compresi contorni della persona amata che mai avresti pensato di dimenticare. E in questa sequenza c'è tutta la struggente malinconia e il senso di inadeguatezza che pervade tutto il racconto, destinato a rimanere a galla per diverso tempo anche dopo aver terminato la lettura, a seconda della
sensibilità di chi legge.

Di questa sequenza però nel film non c'è traccia. E questo è, a mio avviso, uno dei difetti più evidenti e clamorosi: saltare questo prologo significa togliere al resto della storia quel senso di nostalgia e di sottile disagio che contribuisce a rendere più sfumati e tolleranti i giudizi sui personaggi, che nella versione cinematografica finiscono per essere inevitabilmente 'decontestualizzati' e più stereotipati rispetto all'originale. Il film risulta essere così più 'crudo', più diretto, ma decisamente molto meno 'poetico' e delicato del mondo descritto da Murakami. Questione di sensibilità personale, ovvio. Come a giudizio di chi scrive è abbastanza inadeguata l'attrice che interpreta Midori: nel romanzo è una ragazza forte, bella, 'adulta', segnata dalla vita. Nel film sembra una lolita insopportabile e con la puzza sutto il naso...

Ma nel complesso, Norwegian Wood resta un film da vedere. Che piacerà a tutti coloro che sanno di non avere certezze nella vita, e che in più di un'occasione si sono trovati di fronte a scelte difficili, dolorose ma inevitabili. E che si saranno accorti che il coraggio di certe azioni, e la forza per compierle, dobbiamo necessariamente trovarle dentro di noi. E questo non ci riporta, forse, al nome di questo blog?

VOTO: * * *