domenica 27 marzo 2011

SILVIO FOREVER (Italia, 2011) di Roberto Faenza e Filippo Macelloni


Forse sarò ingenuo, e forse anche ottuso, ma in tutta onestà vi confesso che non sono riuscito a capire il senso di questo film. Per quale motivo, secondo voi, Faenza & co. hanno deciso di portare nelle sale questo documentario (ma sarebbe meglio parlare di 'montaggio' animato) sulla vita del 'più grande piazzista del secolo' , detta alla Montanelli?
E' una domanda seria, e vi chiedo seriamente di aiutarmi  perchè io sono in evidente difficoltà nel darmi una risposta... insomma, che cosa vuole essere Silvio Forever?  Una biografia? Uno spot? Un film 'contro'? Una pernacchia? Una caricatura? Un'involontaria apologia? Ve lo chiedo perchè, onestamente, vi sfido a trovare una sola immagine contenuta in questo film che la gente non conosca già... anche perchè stiamo parlando dell'individuo più mediaticamente esposto del nostro paese, e quindi non è che ci volesse una gran fatica nel montare questi 85 minuti scarsi di girato. Faenza non è Michael Moore: questo documentario non graffia, non 'scalda le coscienze', non sa dove va a parare e soprattutto (insisto) non si capisce che cosa dovremmo aspettarci da un'accozzaglia di immagini che non dicono assolutamente niente di nuovo sulla vita del  premier, e che soprattutto non producono più alcun effetto su una platea 'anestetizzata' e assuefatta a tutto come quella italiana.

Vorrebbe essere un documentario 'anti'-Berlusconi? Se questa era l'idea, beh, allora temo che sortirà esattamente l'effetto contrario: i fan del Cavaliere avranno vita facile nel sostenere che questo film è 'l'ennesimo spot di un'intellighenzia di sinistra che non si rende conto di quanto siano snobistiche e auto-referenziali iniziative di questo tipo'. E come dargli torto? Dal film non esce alcuna novità sulle 'malefatte' berlusconiane: non si parla affatto del bunga-bunga, della P2, dei presunti rapporti con la mafia, dei processi in corso... tutto rimane sfumato, nel contesto di una patetica ironia di fondo che non fa ridere proprio nessuno.

Silvio Forever è un film fondamentalmente inutile, perchè opere come questa non ottengono alcuno scopo: lo andranno a vedere escluisivamente gli elettori di centro-sinistra, i quali vi troveranno solo scontate conferme di quello che già sanno, mentre gli elettori di centro-destra lo considereranno nient'altro che la riprova della 'persecuzione' mediatica verso il premier, e lo diserteranno in massa.  Un'inutile e noiosissimo spreco di pellicola e di energie, raccontato dalla premiata coppia di demagoghi e pseudo-paladini della Dignità che risponde al nome di Rizzo & Stella. Questo film è un po' come i loro libri: la scoperta dell'acqua calda.
Lasciate perdere.

VOTO: *

sabato 26 marzo 2011

Sulle sparate di Galan, sull'ipocrisia di un paese a-normale, su Venezia, Roma e (poco) altro. Cronache da una piccola Italia

Si fa presto a dire Unità. Non sono passati nemmeno dieci giorni dalla 'giornata dell'orgoglio nazionale' che l'Italietta più risibile e sgangherata (quella della politica) torna puntualmente a dare il peggio di sè. Lo avrete certamente letto nelle agenzie: il neo-ministro dei Beni Culturali Giancarlo Galan, successore del Gran Ciambellano (di Arcore) Sandro Bondi, appena sedutosi alla scrivania del predecessore si è immediatamente contraddistinto in una polemica tanto assurda quanto ridicola: si è infatti scagliato duramente contro la Festa del Cinema di Roma affermando che 'un solo Festival basta e avanza', riferendosi ovviamente alla Mostra di Venezia. E se aggiungiamo che il buon Galan è stato per due legislature presidente della Regione Veneto, ecco che il cerchio si chiude.

La solita Italia, insomma: il Nord che accusa il Sud, i nordisti contro i 'terroni', Venezia contro Roma, l'invidia del Nord opulento e prosperoso verso l'assistenzialismo e il nullafacentismo di 'Roma Ladrona'. Che tristezza. E questo dovrebbe essere il Paese unito che abbiamo festeggiato a suon di bandiere al vento e Inno di Mameli a squarciagola. Una vera e propria Festa dell'Ipocrisia, non c'è che dire.  Il tutto reso ancora più tragico dall'amara constatazione che in questo paese è impossibile 'fare sistema' a qualsiasi livello, unirsi e collaborare tutti insieme per costruire un prodotto migliore. Lo vediamo, tragicamente, in queste ore con quello che sta accadendo a Lampedusa, dove non si riescono a tirar fuori da un ghetto 5.000 persone (non cinque milioni) perchè nessuno è disposto ad accoglierli... figuriamoci dunque se si poteva trovare un accordo tra due manifestazioni di spettacolo! Pura utopia.

Chi mi conosce sa che sono un frequentatore assiduo della Mostra di Venezia. Ci vado ogni anno, seppure ogni volta mi chiedo sempre 'chi me l'ha fatto fare', per una serie di motivi. Venezia è la rassegna cinematografica più antica del mondo, ha una tradizione e un prestigio secondi solo agli Oscar americani (e non a Cannes, come i francesi tentano di farci credere), gode del rispetto di tutti coloro che vivono di cinema.
Però non ci vuole molto a rendersi conto che il contesto in cui si svolge il  Festival è davvero deprimente: strutture vecchie, obsolete, se non addirittura fatiscenti (l'anno scorso è bastato un temporale di 15 minuti per allagare il Palabiennale), per non parlare dei servizi igienici insufficienti, la mancanza cronica di strutture ricettive, i prezzi assurdi dei pochissimi bar presenti al Lido, la mancanzi di qualsiasi altra attrattiva 'mondana' per chi non si accontenta 'solo' di vedere film... a tutto questo negli ultimi anni si è aggiunto, beffardamente, il cantiere del 'nuovo' Palazzo del Cinema, che non si sa proprio quando e SE verrà ultimato. E intanto è lì, nel bel mezzo dell'area festivaliera, a fare orrenda presenza chissà per quanti anni ancora.

La Festa di Roma invece non la conosco. Lo ammetto, non l'ho mai considerata più di tanto, forse ingiustamente... nacque sei anni fa come 'sfizio' di Walter Veltroni, allora sindaco 'cinefilo' della capitale (più cinefilo che sindaco, dicono i suoi detrattori), e successivamente la nuova amministrazione di centrodestra se l'è ritrovata in mano come una patata bollente. Aldilà dei proclami, infatti, la giunta Alemanno non ha mai visto di buon occhio la rassegna, più 'sopportata' che caldeggiata. Solo che ora gli torna molto utile per ribattere ai proclami di Galan e riaffermare il ruolo di Roma 'caput mundi' (sic!). Ma, lasciando perdere il campanilismo più bieco, non ci vuole molto a capire che i problemi delle due manifestazioni sono opposti e complementari nello stesso tempo: Venezia ha il carisma, la tradizione, il prestigio, il nome. Ma in sessant'anni non è riuscita a dotarsi di un luogo decente dove proiettare i film. Roma è un Festival giovane, popolare, un po' 'costruito', dove per far venire i grandi nomi gli sponsor devono sganciare fior di quattrini... ma sono comunque fondi PRIVATI, e non finanziamenti pubblici come invece vengono elargiti copiosamente al Lido. Però Roma ha le strutture, ha le disponibilità e i mezzi di una capitale della cultura, ha luoghi 'magici' dove distribuire tutta la rassegna, dispone di location, alberghi, ristoranti, trasporti... 

Come si vede, l'ideale sarebbe trovare una 'sinergia' tra i due eventi. Una forma di collaborazione che unisca anzichè dividere. Cosa che, se il buongiorno si vede dal mattino, appare davvero complicata.
E vabbè, siamo italiani. C'è poco da fare. Ma cerchiamo almeno, se proprio non è possibile volersi bene, di sopportarsi e non farsi dispetti a vicenda. Bisogna a tutti i costi trovare una forma di 'non belligeranza' che giovi a entrambe le rassegne. A cominciare magari, semplicemente, dalle date di programmazione. Insomma: è mai possibile che che la Festa di Roma debba svolgersi per forza a Ottobre? A un mese di distanza dalla Mostra? E' chiaro che finchè la collocazione resterà questa ci sarà sempre attrito e rivalità con Venezia (che tra l'altro, non dimentichiamolo, soffre anche della concorrenza 'piccola' ma agguerrita del Festival di Locarno, che si svolge poche settimane prima). Non si potrebbe, che so, spostarla ad aprile oppure a giugno? In questo modo si comincerebbero a rompere le uova del paniere a Cannes... nessuno ci ha mai pensato?

mercoledì 23 marzo 2011

AMICI MIEI - COME TUTTO EBBE INIZIO (Italia, 2011) di Neri Parenti


Di una cosa sono sicuro: questa versione 'retrodatata' di  Amici Miei rischia di passare alla storia come uno dei fiaschi più colossali della storia del cinema italiano. Costato la bellezza di 15 milioni di euro, una cifra folle per una produzione italiana di questo tipo, sono pronto a scommettere che ne incasserà molti, molti di meno. Il motivo è molto semplice: è un film che ha talmente 'paura' di confrontarsi con l'originale da risultare alla fine così  scialbo da far sbadigliare anche lo spettatore meglio 'predisposto'.

Ora, si potranno fare mille discorsi sul fatto se fosse stato più o meno il caso di 'scomodare' i capolavori di Monicelli, e se davvero si sentiva  il bisogno di produrre un 'prequel' ambientato nel medioevo sugli 'antenati' del Perozzi, Mascetti e compagnia... sono sorti addirittura gruppi sul web che invitavano a boicottare questa pellicola 'sacrilega', quasi fosse un peccato di lesa maestà solo avvicinarsi o 'confrontarsi' col Maestro. Ma tant'è: ormai il film è nelle sale e tantovale parlarne. Il problema è che quando si fanno operazioni di questo tipo il confronto con l'originale è pressochè inevitabile, se non improponibile, e ovviamente tutto a discapito dell'ultimo arrivato. Figurarsi poi se a dirigerlo è  un'autentico mestierante del cinema 'trash' italico come Neri Parenti, 'bollato' a vita come 'regista di cinepanettoni', ovvero di molte delle pellicole più orrende e pecorecce  mai viste sui nostri schermi nelle ultime due decadi...

Logico, insomma, che i pregiudizi si sprechino.  Tuttavia ho deciso di andare a vederlo lo stesso: sia perchè non mi piace parlare di un film per 'sentito dire', sia perchè sono sempre stato contrario alla censura 'preventiva' (il classico 'non l'ho visto e non mi piace'), sia perchè il film è stato girato per buona parte in luoghi vicinissimi a casa mia (S. Gimignano, Certaldo, Pistoia) ed ero curioso di vedere quale sarebbe stata la 'resa' sul grande schermo.

Ebbene, va detto subito che il film non è poi così terribile come molti si aspettavano: siamo di fronte a un prodotto che è ben diverso dal 'cinepanettone' natalizio, a testimonianza che il fiorentinissimo Neri Parenti  era (forse) davvero convinto di poter realizzare un sentito 'omaggio' al grande Monicelli e a tutta la 'toscanità'.
Il problema, come dicevamo all'inizio, è che paradossalmente lo fa davvero con 'troppo' rispetto nei confronti dell'originale: nel senso che per evitare di scadere nella comicità greve e scollacciata dei cinepanettoni, Parenti gira una pellicola assolutamente piatta e impersonale,  sicuramente non volgare ma senza neanche l'ombra dell'ironia feroce, graffiante e dissacratoria che fece la fortuna dei primi film. Ed è un peccato, perchè tutto sommato questo è un film 'vero', che potrà non piacere ma che  è supportato da una discreta sceneggiatura e una buona accuratezza dei dettagli. A tutto questo bisogna poi aggiungere che la troppo spiccata 'toscanità' dei dialoghi e delle situazioni rischia di rivelarsi un'arma a doppio taglio: certe battute magari potranno far sorridere chi è 'madrelingua' come me... ma di sicuro ben poco diranno a chi vede il film a Napoli o a Bolzano.

Lo stesso discorso vale per il cast: se i toscani 'd.o.c.' come Panariello, Hendel e Ceccherini (forse il più spassoso di tutti) danno l'impressione di trovarsi più o meno a loro agio nei panni quattrocenteschi, Ghini e DeSica (per quanto non impresentabili) risultano poco credibili come eredi della lingua di Dante... Difetti importanti per un film 'ingessato' e (troppo) misurato, incapace di far 'vedere' sullo schermo i (troppi) soldi spesi.
In definitiva, una grossa occasione perduta.
 
VOTO: * *

lunedì 21 marzo 2011

Amori cinefili / MICHELLE WILLIAMS

Tutto sommato è ancora giovanissima (è nata nel 1980), e forse riuscirà a non farsi travolgere dal ricordo e dalla 'condanna' di essere stata la moglie e l'ultima compagna di Heath Ledger. Perchè Michelle Williams, per quasi tutti, è ancora nient'altro che la vedova del compianto attore australiano. Un fardello pesante da portare addosso, non solo dal punto di vista strettamente privato ma anche da quello professionale. Pochi, infatti, riconoscono questa biondina minuta, esile ma forte come l'acciaio, per le sue interpretazioni, che pure non sono da disprezzare, anzi.

Nata in un minuscolo e sperduto paesino del Montana, si trasferisce giovanissima a San Diego con la famiglia. La ragazzina è appena quattordicenne ma ha già le idee ben chiare: vuole lavorare nel mondo del cinema e Hollywood la nota quasi subito: prima una piccola parte in Baywatch e poi il debutto sul grande schermo con Lassie (1994) cui seguirà, l'anno dopo, il fanta-horror Specie Mortale, dove recita al fianco di un 'mostro sacro' come Ben Kingsley.

Ma la vera svolta professionale arriverà un paio di stagioni più tardi quando, appena compiuta la maggiore età, viene scritturata per il ruolo dell'inquieta Jen Lindley nel serial 'di culto' Dawson's Creek, dove per cinque anni entrerà nei sogni (più o meno pruriginosi) dei milioni di adolescenti che seguono il telefilm e trepidano per lei. Michelle interpreta la parte di una studentessa di città, sveglia, altezzosa e un po' antipatica, che si trasferisce nella piccola località di Capeside (Massachussets) per dare una svolta alla propria vita... qui l'amore tormentato per il protagonista della serie (James Van Der Beek) e la 'rivalità' con la compagna di scuola Joey (Katie Holmes, futura signora Cruise) le regaleranno una popolarità 'clamorosa', viatico per una 'vera' carriera nel mondo del cinema.

Nel 2004 viene infatti notata da Wim Wenders, che la scrittura per il film La Terra dell'Abbondanza, prima pellicola post 11 settembre sul tema, e le regala quello che a mio personale giudizio è ancora il ruolo più bello della sua carriera: quello di Lana, giovane orfana che torna negli Stati Uniti al cospetto dell'unico parente: uno zio paranoico e terrorizzato dagli attentati col quale inizierà un difficile ma costruttivo percorso di riavvicinamento, instradandolo verso una visione del mondo più giusta e tollerante. Michelle tiene testa magnificamente ad un 'animale da palcoscenico' come John Diehl, guadagnandosi l'apprezzamento anche da parte della critica cinematografica, generalmente sempre scettica verso coloro che vengono dalla televisione.

Il momento 'magico' della Williams sembra continuare inarrestabile, anche sul piano sentimentale: nel 2005 gira I segreti di Brockeback Mountain, sotto la guida di Ang Lee, interpretando la parte di Alma Beers, moglie del cowboy Ennis Del Mar impersonato da Heath Ledger. Il ruolo le vale la nomination all'Oscar come migliore attrice non protagonista e pure l'amore, non solo di scena, dell'attore australiano. Galeotto fu il set, insomma. I due convivono per un paio d'anni, mettendo al mondo anche una figlia, Matilda. Nel frattempo, nel 2006, ecco anche un piccolo ma significativo cameo nel film Io non sono qui di Todd Haynes, biografia musicata di Bob Dylan. Ma la gioia dura assai poco: dopo appena due anni arrivano la separazione, il divorzio, la tragedia: il 22 gennaio 2008 Ledger viene trovato morto nel suo appartamento, da solo, a causa di un'overdose di barbiturici. E' l'inizio di un periodo terribile per Michelle: dilaniata dal dolore, rincorsa dai paparazzi, devastata dalla dura battaglia legale per l'affidamento della figlia.

Ma la fibra è d'acciaio, come dicevamo. E Michelle trova la forza e la determinazione per proseguire la carriera: prima un ruolo nel torbido psico-thriller Shutter Island di Martin Scorsese, poi due splendide e sofferte interpretazioni nel drammatico Blue Valentine di Derek Cianfrance (al fianco di Ryan Gosling): e addirittura impersonando Marilyn Monroe nell'omonimo film di Simon Curtis: arrivano due nomination all'Oscar in due anni, che sono il punto di partenza per una seconda carriera. E forse di una seconda vita.
Coraggio Michelle.

domenica 13 marzo 2011

STORIE DI BOXE


Vi siete mai chiesti perchè la boxe è la disciplina sportiva più rappresentata al cinema, specie quello hollywoodiano? Semplice, perchè la boxe incarna tutte le caratteristiche del 'Sogno Americano': sudore, abnegazione, costanza, rivalsa. Il sogno del 'self-made-man' che, partendo dal punto più basso della scala sociale, riesce ad 'arrivare', a 'farcela' contro tutto e contro tutti. Non solo: il pugilato è lo sport 'nobile' per eccellenza, che toglie i poveracci dalla strada e li indirizza verso la vita vera, magari assicurando ad ognuno di loro il famoso 'quarto d'ora di celebrità'.
Di film di boxe, appunto, ne sono stati fatti tanti: molti dignitosi, diversi non proprio memorabili, alcuni autentici capolavori. Questi qui:

1. TORO SCATENATO (M. Scorsese, 1980)
    De Niro si guarda allo specchio ed 'entra' idealmente sul ring. Perchè solo lì riesce a trovare la dignità, ad essere persona vera. Come lo fu il vecchio Jake La Motta. Girato in un esaltante bianco e nero, col montaggio vertiginoso di Thelma Schoonmaker. Fu il film della svolta per Scorsese, e forse il più bel film di boxe finora mai realizzato.

2. ROCKY (J. J. Avildsen, 1976)
    D'accordo, paragonato con il precedente appare quasi blasfemo. Ma chi non si è appassionato vedendo il primo Rocky? Chi non ha trepidato sulla famosa soundtrack di Bill Conti, su Stallone che sale i gradini del municipio di Philadelphia, sull'urlo liberatorio 'Adrianaaaaaaaaaa !!!!'. Sogno Americano all'ennesima potenza, ma genuino.

3. WHEN WE WERE KINGS (L. Gast, 1996)
    Un quarto di secolo per realizzarlo, quasi duecento ore di materiale girato, la macchina da presa che segue instancabile il Più Grande pugile di ogni epoca. Un documentario straordinario, avvincente come una diretta, appassionante oggi come allora. Clay che corre, sbuffa, lotta, si arrabbia e dileggia Foreman: 'Non mi piace, parla troppo!!!' . Strepitoso.

4. ALI (M. Mann, 2001)
    Ancora Lui. Dopo il documentario la fiction firmata Michael Mann. E come in tutti i film di Mann la trama è un pretesto per girare un grande affresco sociale sul Tempo e sulla Storia. Magistrale.

5. FAT CITY - CITTA' AMARA (J. Houston, 1972)
    Film amabilmente 'classico' firmato da un maestro del genere, il grande John Houston. Cinema old-style, manieristico ma intramontabile. Jeff Bridges al primo ruolo importante, in una recitazione che sarebbe piaciuta ad un altro 'grande vecchio', Clint Eastwood, che vi si cimenterà molti anni dopo.

6. LASSU' QUALCUNO MI AMA (R. Wise, 1956)
    Rocky Graziano, alias Paul Newman. Il primo grande successo di un film pugilistico, grazie alla recitazione asciutta, rabbiosa, 'esagerata' del divo. Wise lo asseconda, la cinepresa lo 'insegue' senza mai indugiare: il film è 'lui', e il regista prende atto.

7. MILLION DOLLAR BABY (C. Eastwood)
    Se Rocky era l'apoteosi del Sogno Americano, la tragica parabola di Maggie Fitzgerald è la fine di un'epoca: Maggie è bianca, 'vecchia' per lo sport, indigente e arrabbiata. Ma stavolta non c'è nessuna possibilità, nessun 'momento di gloria'. Solo commozione, rispetto, tanta dignità e la magia di una pellicola che solo il 'grande vecchio' poteva girare 'così'.

THE FIGHTER (USA, 2010) di David O. Russell


La boxe è da sempre lo sport più 'saccheggiato' dal grande schermo, specie dal cinema a stelle e strisce, e la ragione è evidente: il pugilato incarna le principali caratteristiche del Sogno Americano (sacrificio, tenacia, dedizione, successo), che vogliono l' 'uomo qualunque', preso dalla strada, spesso umile e indigente, capace di arrivare sul tetto del mondo. La storia dell' 'uno su mille ce la fa', insomma, meglio ancora se condita da una bella dose di patriottismo e, perchè no, di redenzione e conseguente risalita. Di film sulla boxe se ne sono fatti tanti (vedi post sopra), alcuni capolavori assoluti, altri discreti, molti non memorabili.

A quale categoria appartiene quindi The Fighter, ultima fatica di David O. Russell, regista newyorchese assurto agli onori della critica una decina di anni fa con il folgorante Three Kings, vigoroso action-movie sulla Guerra del Golfo, e poi rapidamente decaduto col disatroso fiasco di I love Huckebees?
Beh, diciamo subito che il film non è un capolavoro. The Fighter non è Toro Scatenato (e questo ce l'aspettavamo), ma sarebbe ingiusto liquidare la pellicola come 'l'ennesima storia di box made in USA'. Perchè Russell ce la mette tutta per non fare un film scontato (riuscendoci solo in parte), ma va apprezzato il tentativo di andare 'oltre' la semplice trama sportiva per raccontare una vicenda familiare, a tratti dura e spigolosa, che adotta il ring come parabola sociale. E di questo bisogna dargliene atto.

I protagonisti del film sono infatti due fratelli, ed è su di loro che si sofferma la macchina da presa. Due fratelli di origine irlandese, provenienti entrambi dai bassifondi (e fin qui siamo davvero 'sul classico')  ma dal carattere totalmente diverso: uno (Dick, un ottimo Christian Bale) è debole e malandato, vive sul ricordo di un attimo di gloria (un incontro perso onorevolmente contro l'invincibile Ray Sugar Reynold) e passa il tempo a riempirsi di crack. Nei rari momenti di lucidità si diletta ad allenare il fratello, Micky (Mark Wahlberg) che di grinta invece ne ha da vendere ma finirà anch'esso nei guai proprio per salvare Dick, a cui è tenacemente legato. A complicare la situazione si aggiunge la madre dei due (Melissa Leo), donna invadente, invasata e possessiva, capace di condizionare non poco i legami affettivi e familiari dei due.

La prima parte del film è bella, cupa e toccante. Quasi documentaristica per realismo e forza emotiva. Sembra di assistere a un film di Ken Loach,  con la macchina da presa capace di mettere a nudo, senza bisogno di dialoghi, una realtà fatta di povertà, ignoranza, squallore, degrado fisico e morale, ma portata avanti con grande dignità. E molto del merito lo si deve agli attori principali, davvero encomiabili nelle loro performance (Bale e la Leo hanno vinto l'Oscar - meritato - ma sarebbe ingiusto 'dimenticare' Wahlberg, una faccia mai troppo considerata a Hollywood, senza dubbio però uno degli interpreti più versatili e affidabili della nuova generazione).

Quando però la vicenda 'vira' sul versante strettamente sportivo, ecco che il film s'incarta... nel senso che non dice niente di nuovo e comincia a parare sul terreno noto e prevedibile, tipicamente americano, dell'eroe caduto in disgrazia che con grande abnegazione e fiducia in se stesso riesce a risalire la china e assurgere a imperitura gloria. Sa tanto di Rocky ma si lascia comunque vedere, mantenendo la retorica su livelli accettabili. Un film, insomma, che non lascerà il segno ma che saprà regalarci un piccolo attimo di gloria. Esattamente come il suo protagonista.
Meglio che niente.

VOTO: * * *

mercoledì 9 marzo 2011

VENT'ANNI FA \ IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI (USA, 1991) di Jonathan Demme



Andai a vederlo al cinema appena uscito, giusto vent'anni fa... ma confesso che non ricordo molto di quella 'prima volta', anche perchè ne vidi solo metà. Perchè per l'altra metà tenni gli occhi chiusi e le orecchie tappate. Ebbene sì, avevo diciannove anni e me la facevo sotto dalla paura. L'unico motivo per cui mi trovavo in sala era la presenza di Jodie Foster, già all'epoca la mia attrice preferita. Solo dopo (molte) altre visioni mi resi conto che quel film che tanto mi aveva fatto spaventare poteva considerarsi, senza esagerare, un film 'epocale'. Un  capolavoro assoluto. Di più, un'autentica esperienza visiva e (soprattutto) psicologica, di quelle che 'segnano' una persona e, inequivocabilmente, le aprono gli occhi. Anche a uno sbruffoncello appena maggiorenne...

Sono passati vent'anni ma la carica emotiva di questa incredibile, inimmaginabile pellicola è pressochè intatta. E' vero che ormai ci siamo assuefatti a tutto, che viviamo in una società tanto malata esattamente quanto questo film ci aveva predetto, che certi avvenimenti che riempiono pagine intere di giornali e televisioni ci dicono che ci sono tanti Hannibal Lecter su questo mondo. Ma questo film rimane ineguagliabile, proprio per la forza malvagia che sprigiona e per la soggettiva che 'costringe' lo spettatore a mettersi sullo stesso piano dell'assassino, ad osservare senza essere visto l'ansimare nel buio della propria preda.
Il silenzio degli innocenti è un trattato sulla pazzia, una tesi di laurea sull'orrore e la bestialità umana, girato sotto forma di thriller psicologico che, attraverso un uso ossessivo e smodato dei primi piani e della profondità di campo, va oltre i limiti della sopportazione e ci stordisce con sequenze di insostenibile tensione, corredate magistralmente dalla partitura musicaledi Howard Shore.
     
Paradossalmente, ma non troppo, pensandoci bene possiamo affermare che Il silenzio degli innocenti ricalca perfettamente lo spirito e l'idea-base di questo blog, quasi ne fosse complementare: come Solaris vuole convincerci che non serve fuggire altrove per disfarsi delle proprie fobie, il film di Demme ci dice che l'orrore è soprattutto all'interno di noi stessi, nell'intimità dei nostri pensieri, e che tutti noi, in primis, siamo i colpevoli della malvagità del mondo che ci circonda. Una visione cupa, apocalittica, ma vedendo il film dobbiamo dire estremamente convincente.

A tutto questo vanno aggiunte, ovviamente, le straordinarie performance degli attori protagonisti. Jodie Foster è magnifica, commovente nel ritratto di giovane recluta che accetterà di essere 'violentata' nel proprio inconscio per salvare vite innocenti. La sua Clarice Starling è uno dei ruoli femminili più belli di sempre, ed è certo che Michelle Pfeiffer (la 'prima scelta' di Demme, che poi declinò la parte) si starà ancora mangiando le mani per quel rifiuto. Di Anthony Hopkins c'è poco da dire: questo ruolo è stato per lui nello stesso tempo un trionfo e una condanna: il personaggio di Hannibal the Cannibal gli si è appiccicato addosso per sempre, e la mezz'ora scarsa in cui compare nel film basta e avanza per additarlo come uno dei personaggi più famosi, orribili e nello stesso tempo affascinanti della storia del cinema.

VOTO: * * * * *

domenica 6 marzo 2011

IL GIOIELLINO (Italia, 2011) di Andrea Molaioli


"A parte i quattordici miliardi di debiti, questa azienda è un gioiellino". La frase è stata attributa a Calisto Tanzi, ed è emblematica del livello di una certa classe imprenditoriale tipicamente nostrana: quella dei 'miliardari di provincia' che, con somma ignoranza e spregevole cialtronaggine si atteggiavano a padri-padroni della finanza italiana nell'immediato dopo-tangentopoli. Era la seconda metà degli anni '90, la bufera che aveva sgretolato la prima repubblica non si era ancora placata, eppure c'era chi, in barba a tutto, si permetteva di 'inventarsi' di sana pianta soldi facili confidando nella propria onnipotenza, incuranti delle conseguenze (sia quelle riguardanti loro stessi che quelle, ben più drammatiche, verso gli ignari risparmiatori che avevano dato loro fiducia). Come dire: cambiare tutto affinchè nulla cambi, secondo la ben nota teoria gattopardiana.

Piccoli uomini, meschini individui, rozzi nell'aspetto e nella goffaggine: fanno i conti a mano, parlano a malapena l'inglese, si tuffano nella Borsa senza cognizione di causa, senza idee, senza dignità, senza vergogna. Spendono e spandono, falsificano bilanci, rubano dalle proprie tasche (il colmo!), utilizzando la loro azienda come un bancomat. Si chiamano Tanzi, Cragnotti, Fiorani, Coppola, Ricucci... gente inetta e barbara, triste esempio di un paese (rigorosamente scritto con la 'p' minuscola) che troppo spesso si è identificato a loro immagine e somiglianza. E che troppo spesso ha coperto le malefatte di questi individui, incoraggiandone addirittura la loro inquietante carriera. Ne sono una prova le varie depenalizzazioni del falso in bilancio, la mancata viglilanza degli organi preposti, i politici che dietro 'laute ricompense' (chiamamole così) chiudono un occhio (e forse anche tutti e due) di fronte a palese delinquenza.

L'ultimo film di Molaioli racconta questo, e gli va dato atto di aver avuto coraggio. Il film non è perfetto, tutt'altro, ma centra l'obiettivo: quello di tratteggiare la grettezza e lo squallore di una società basata sul denaro facile e la corruzione, dove si va avanti per 'conoscenze', 'amici', appoggi politici, e dove chi si sforza di essere onesto (o meno 'farabutto' degli altri, se preferite) fa inevitabilmente una brutta fine. La vicenda ricalca espressamente quella della Parmalat, ma non necessariamente si deve fare un confronto con i 'protagonisti' dell'epoca. E' semplicemente 'una storia italiana' come tante, portata come esempio.
Il film è abbastanza didascalico, ha una struttura un po' troppo 'televisiva', tratteggia in modo superficiale e anche abbastanza ingenuo situazioni ben più complesse e drammatiche, stemperandone la drammaticità e facendo ricorso a luoghi ben più che comuni (la donna in carriera che va a letto col capo), ma bisogna dire che nel complesso coinvolge e appassiona, pur non essendo un film 'denuncia' ma una discreta pellicola d'inchiesta, decisamente 'fuori contesto' e coraggiosa nel panorama attuale del cinema di casa nostra.

Bravi gli interpreti, tutti azzeccati: Servillo è 'imperiale' come sempre nel suo ruolo, ma corre il rischio di 'inflazionare' la sua immagine recitando sempre la parte del 'bastardo cinico': prima o poi vorremmo vederlo in una commedia... Remo Girone, dimesso e trattenuto, incarna perfettamente i panni dell'imprenditore sprovveduto e 'vecchia maniera', travolto dagli eventi. Sarah Felberbaum, bellissima e 'stronza' al punto giusto, al suo primo ruolo importante è più che credibile.

VOTO: * * *